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Patente a crediti nei cantieri: cosa cambia per gli attori della sicurezza sul lavoro

Il prossimo 23 aprile, nell’imminenza della conversione in legge del D.L. n. 19/2024, il Webinar AIAS con la presenza dell’avv. Giovanni Scudier fa il punto sulla patente a crediti e sulle modificazioni in arrivo al testo di legge.

Come funziona? Cosa cambia per tutti i soggetti del cantiere? Quale impatto avrà sulla organizzazione e sulla gestione degli appalti? Questi e altri i temi che verranno affrontati.

Scarica qui la locandina dell’evento.

Patente a crediti nei cantieri: cosa cambia per le imprese (affidatarie ed esecutrici), i lavoratori autonomi, i committenti pubblici e privati.

Il Decreto legge n. 19/2024 all’art. 29, al fine di “rafforzare l’attività di contrasto al lavoro sommerso e di vigilanza in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro” (comma 19) ha introdotto la “patente a crediti” per quanti operano nei cantieri temporanei o mobili. E’ probabile che in sede di conversione del D.L. molte saranno le modifiche e le correzioni alla patente, che comunque non si applicherà prima di ottobre 2024; la prima versione del provvedimento consente tuttavia fin d’ora una riflessione su questo nuovo strumento e sull’impatto che è destinato ad avere, non solo sulle imprese e i lavoratori autonomi che devono “possedere” la patente, ma anche sui committenti e sulla complessiva organizzazione e gestione degli appalti, nel privato come nel pubblico. L’articolo approfondisce le caratteristiche della patente, il ruolo dei crediti, le criticità dei meccanismi di decurtazione, la necessità di coordinare le nuove disposizioni con gli strumenti di controllo e sanzionatori già esistenti.

Per scaricare la versione Pdf del documento è possibile cliccare qui.

1. Le modifiche al Decreto 81/08

L’art. 29 comma 19 del D.L. 2 marzo 2024 n. 19 (G.U. 2.3.2024) modifica tre articoli del Decreto 81: il primo è l’art. 27 sulla qualificazione delle imprese, che viene totalmente sostituito; il secondo è l’art. 90 comma 9 sugli obblighi di verifica del committente di cantiere temporaneo o mobile, che viene integrato con l’aggiunto di una nuova verifica sulla patente; il terzo è l’art. 157 comma 1, di cui viene sostituita la lettera c) introducendo la sanzione amministrativa pecuniaria al committente per la violazione dell’obbligo di verifica della patente.

Esiste una quarta norma del Decreto 81/08 interessata dal D.L. n. 19/2024: si tratta dell’art. 26 comma 1 lettera a), che regola la verifica di idoneità tecnico professionale (di seguito: itp) da parte del committente di lavori intra-aziendali.

2. Il nuovo art. 27 del Decreto 81/08

2.1 La sostituzione del previgente art. 27 del Decreto 81. Un nuovo sistema di qualificazione basato sui crediti

L’art. 29 comma 19 sostituisce integralmente l’art. 27 del Decreto 81 con un “nuovo” art. 27 la cui rubrica ora è “Sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi tramite crediti”.

Non si tratta di attuazione di un articolo che aveva già per oggetto la qualificazione delle imprese: è un nuovo scenario anche in termini di sistema.

Viene eliminato il doppio canale che prevedeva sia un sistema di qualificazione (senza crediti) per settori da individuare di volta in volta,  sia un sistema di qualificazione a crediti per il settore dell’edilizia eventualmente estensibile ad altri ambiti: nel nuovo art. 27 esiste un solo criterio generale di qualificazione ed è quello basato sui crediti.

Inoltre, mentre il “vecchio” art. 27 non regolava direttamente nè il numero dei crediti iniziali né l’entità delle decurtazioni, rimettendo la disciplina attuativa a un D.P.R. da emanarsi su proposta del Ministero del Lavoro sulla base dei criteri elaborati dalla Commissione Consultiva Permanente, ora la norma primaria da un lato detta già molte regole specifiche del sistema a crediti (numeri compresi), dall’altro lato demanda la disciplina applicativa non più allo strumento del DPR ma a decreti del Ministero del Lavoro ed a provvedimenti dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.  Sparisce ogni riferimento sia alla Commissione Consultiva Permanente sia all’art. 6 comma 8 lettera g) del Decreto 81/08, che sembrerebbe da considerare addirittura come tacitamente abrogato. 

L’unico sistema di qualificazione delle imprese ai fini della sicurezza del lavoro è la patente a crediti; se ci sarà un allargamento del sistema ad altri settori, ciò accadrà utilizzando necessariamente questo strumento (nuovo art. 27, comma 10).

2.2 La patente come titolo abilitante all’esercizio dell’attività di impresa

La qualificazione nel nuovo art. 27 si concretizza in un elemento formale: è intesa in sostanza come una “abilitazione” rispetto all’esercizio di attività in cantiere, nel senso che l’operatore deve essere “qualificato” dallo Stato. Ciò avviene attraverso il possesso di un documento, la patente, configurata in tutto e per tutto come un titolo abilitante il cui possesso condiziona il diritto stesso di esercitare l’attività di impresa.

La patente deve essere (i) richiesta dall’interessato, (ii) rilasciata dalla competente sede territoriale dell’INL, (iii) posseduta (mantenuta) nel tempo; è la patente il requisito formale obbligatorio che qualifica all’esercizio dell’attività. I soggetti indicati dalla norma “sono tenuti al possesso della patente” (nuovo art. 27 comma 1); lo svolgimento dell’attività in mancanza del documento è legittimo soltanto “nelle more del rilascio della patente”, cioè a condizione di averne fatto richiesta (comma 2).

All’operatore non viene chiesto di elevare i suoi standard con misure nuove; gli viene imposto di chiedere l’autorizzazione a svolgere la sua attività e di dimostrare che rispetta gli standard già vigenti (presentando DVR, formazione, DURC, ecc.); a seguito di tale domanda dell’interessato, la sede territoriale competente dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro viene investita del potere di decidere se abilitarlo all’esercizio dell’attività. 

2.3 I requisiti sostanziali per il rilascio della patente

Il D.L. n. 19/2024, fatta eccezione per il DURF, disegna i requisiti per la patente rifacendosi sostanzialmente alle norme esistenti del Decreto 81/08: gli obblighi già esistenti (meglio, alcuni di essi) diventano requisiti da “possedere” e da dimostrare.

I requisiti peraltro non devono essere posseduti (e dimostrati) dall’impresa, cioè dall’organizzazione, bensì da una persona fisica; in particolare, il rilascio della patente è subordinato al possesso di essi “da parte del responsabile legale dell’impresa” (nuovo art. 27, comma 1); allo stato si può soltanto segnalare l’anomalia di questa disposizione.

I requisiti richiesti – comma 1, lettere da a) ad f) – sono la iscrizione alla CCIAA, l’adempimento degli obblighi formativi, il possesso di DURC, DVR, DURF. 

Rispetto ai requisiti che il committente di lavori edili deve richiedere secondo l’Allegato XVII per la verifica di idoneità tecnico-professionale (di seguito: itp) manca la dichiarazione riguardante l’art. 14, mentre c’è in più (oltre al possesso del DURF) l’obbligo di dimostrare l’adempimento degli obblighi formativi.

Si tratta, quanto alle imprese, degli obblighi formativi “di cui all’art. 37” da parte di datori di lavoro, dirigenti, preposti, lavoratori: non è richiesta la prova della formazione delle altre figure per le quali la normativa prevede obblighi formativi, ad esempio gli RSPP e ASPP. 

Per quanto riguarda i lavoratori autonomi, l’adempimento da dimostrare riguarda gli “obblighi formativi previsti dal presente decreto”: posto che per l’art. 21 del Decreto 81 la formazione dei lavoratori autonomi è facoltativa, per come la norma è scritta e cioè con rinvio agli obblighi già “previsti” dal Decreto 81/08, è da escludere che si tratti di un tentativo di introdurre in maniera surrettizia un obbligo di formazione dove ora c’è solo una facoltà. 

Sempre con riferimento ai lavoratori autonomi un’altra anomalia è il requisito il possesso del DVR, che i lavoratori autonomi non redigono e non possiedono. Anche qui è da escludere che la norma possa essere intesa come la introduzione in maniera implicita dell’obbligo di DVR, che avrebbe peraltro innumerevoli conseguenze di sistema (una per tutte: i lavoratori autonomi dovrebbero redigere il POS?).

Pur essendo l’art. 27 una norma sulla qualificazione, la norma non soltanto non prescrive requisiti appunto “qualificanti”, ma anzi richiede solo alcuni degli obblighi di base: già si è visto che la formazione è richiesta soltanto in maniera parziale; manca anche qualsiasi riferimento alla sorveglianza sanitaria. 

Della qualificazione specialistica (ad esempio proprio quella del D.P.R. n. 177/2011) non viene chiesto nulla. 

2.4 La “effettiva” qualificazione dipende dal possesso dei crediti minimi.

La qualificazione dell’art. 27 è – lo chiarisce la rubrica dell’articolo – una qualificazione a crediti: ed infatti, se all’inizio l’impresa si qualifica tramite i requisiti sostanziali, poi non è previsto nessun controllo periodico dell’INL sul mantenimento dei requisiti iniziali; l’unico requisito che deve essere conservato nel tempo è, nella patente, un numero di crediti che soddisfa la soglia minima. 

Lo sancisce la prima parte del comma 8: “una dotazione inferiore a quindici crediti della patente non consente di operare nei cantieri”. Anche ai fini sanzionatori, esercizio di attività senza patente o con meno di quindici crediti sono puniti in misura uguale (nuovo art. 27, comma 8 seconda parte).

Il titolo abilitante dunque non è la patente in sé, ma la patente che contiene almeno quindici crediti. 

3. I  soggetti tenuti al possesso della patente.

Sono tenuti al possesso della patente “le imprese e i lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei o mobili di cui all’articolo 89, comma 1, lettera a”.

Non solo imprese edili: conta il “cantiere”, e quindi l’esecuzione di lavori edili o di genio civile.

La patente è necessaria per coloro che operano “nei cantieri”.

Questo significa che l’obbligo di patente non interessa soltanto le imprese edili, perché il cantiere (secondo la norma definitoria che il comma 1 del nuovo art. 27 richiama espressamente e cioè l’art. 89 comma 1 lettera b) è il luogo in cui si svolgono i lavori edili o di genio civile di cui all’Allegato X, il cui elenco è notoriamente assai più ampio. E’ auspicabile che non si ripropongano, questa volta per legittimare le imprese ad entrare in cantiere, tutte le incertezze legate ad una questione mai davvero risolta, e cioè quali sono i lavori edili o di genio civile che individuano un cantiere (uno per tutti: è cantiere il luogo in cui si esegue la manutenzione di impianti?). 

Solo le imprese esecutrici in senso stretto, o anche le imprese che eseguono in cantiere forniture di materiali ed attrezzature?

La patente deve essere posseduta, secondo la norma, dalle imprese che “operano” nei cantieri: l’espressione è atecnica e lascia il dubbio, se si tratti delle imprese esecutrici di cui all’art. 89 comma 1 lettera i-bis), o se invece la patente riguardi tutte le imprese che sono in cantiere e ivi operano, comprese quelle che eseguono forniture di materiali ed attrezzature. 

Come noto, ai sensi dell’art. 96 comma 1-bis le imprese mere fornitrici sono escluse dall’obbligo di redazione del POS, in ragione della mancanza di una attività di “partecipazione” alla lavorazione; il tema è stato ripetutamente affrontato con specifico riferimento alle forniture di calcestruzzo, ma riguarda i fornitori in generale. Escluso l’obbligo di POS, l’art. 96 comma 1-bis peraltro dichiara espressamente applicabile in tali casi l’art. 26; a sua volta l’art. 26 comma 3-bis esclude per le mere forniture l’obbligo di redazione del DUVRI, ma questo non rende estranei al cantiere le imprese  e i lavoratori autonomi fornitori, ai quali rimangono applicabili tutti gli altri commi dell’art. 26.  Ne è riprova il fatto che, pur a fronte dell’esonero di POS (anzi, proprio in ragione di tale esonero) per i fornitori di calcestruzzo (ed i trasportatori) esiste una articolata “Procedura per la fornitura di calcestruzzo in cantiere”, elaborata dalla Commissione Consultiva Permanente e fatta propria anche dal Ministero del Lavoro.

Esiste dunque una disciplina speciale, per i fornitori, relativamente al POS e al DUVRI; però la disciplina sul possesso della patente è materia diversa: il tema è la qualificazione, intesa come abilitazione di un operatore ad essere in cantiere perché in possesso di requisiti adeguati, che è  ben altro dalla redazione dell’uno o dell’altro documento di sicurezza o dalla scelta della procedura da seguire. Ci sembra pertanto che le soluzioni adottate per POS/DUVRI non siano direttamente utilizzabili nel caso di specie per ricavarne una esclusione anche dall’obbligo di patente.

La questione che si pone, dunque, è la seguente: i fornitori sono esclusi dall’obbligo di patente perché non sono imprese esecutrici che eseguono l’opera o parte di essa? Oppure sono soggetti all’obbligo perché operano in cantiere, indipendentemente da ogni qualifica? 

Il dato letterale del nuovo art. 27 comma 1 sembrerebbe includerli nell’obbligo, non potendosi negare che essi “operano” nei cantieri (ovviamente, rimangono escluse le forniture che si arrestano fuori del cantiere). 

Al contrario, il dato letterale del nuovo art. 90 comma 9 lettera b-bis, introducendo la verifica di possesso della patente “nei confronti delle imprese esecutrici o dei lavoratori autonomi”, potrebbe supportare la conclusione contraria, e cioè che non devono munirsi di patente quanti operano nei cantieri senza essere “imprese esecutrici”.

Il dato letterale è incerto, insomma; occorre domandarsi quanto possa contare, sul piano sistematico, la ratio del D.L. n. 19/2024 di rafforzare controllo e vigilanza coinvolgendo l’intera filiera dei cantieri. 

Un chiarimento su questo punto in sede di conversione appare assolutamente necessario: la questione non riguarda i documenti di sicurezza da redigere, bensì la legittimazione stessa dei fornitori ad “operare nei cantieri”.

Le imprese affidatarie non esecutrici devono possedere la patente?

E’ indiscutibile, a nostro avviso, che l’impresa affidataria sia una impresa che “opera” nel cantiere temporaneo o mobile: perfino se non è esecutrice e sub-affida l’intera opera a terzi, il ruolo principale nella gestione dell’appalto le appartiene, essendo colei che organizza la commessa, ed appare ampiamente sufficiente a considerarla tra i destinatari dell’obbligo di patente. 

La perplessità nasce però dal dato letterale della norma.

Da un lato, il nuovo art. 90 comma 9 lettera b-bis) obbliga il committente a richiedere la patente alle imprese esecutrici, ma non nomina l’impresa affidataria; sembrerebbe ricavarsene che un’impresa affidataria, quando non esegue neppure una parte dell’opera con proprie risorse e personale, non deve possedere nessuna patente.

Se poi si guarda all’elenco dei requisiti, che l’impresa deve possedere per chiedere il rilascio della patente, non è compreso nessuno dei requisiti specifici dell’impresa affidataria, cioè quelli previsti dal comma 01 dell’Allegato XVII e che riguardano, come noto, specificamente la idoneità dell’affidataria in termini di gestione e organizzazione dell’appalto nonché dei propri sub-affidatari, e la sua capacità di adempiere al meglio agli obblighi dell’art. 97.

E’ paradossale che una norma intitolata alla qualificazione nei cantieri, e che dovrebbe elevare il livello della filiera degli appalti, trascuri la figura che è centrale per la filiera e per l’intero assetto del cantiere. La sicurezza nei cantieri (e nei luoghi di lavoro in generale) sembra concepita nel Decreto  come una questione che riguarda solo il cantiere “fisico” e la esecuzione delle lavorazioni, dimenticando che la sicurezza è anche (per certi profili soprattutto) organizzazione. 

I cantieri gestiti con DUVRI anziché con il Titolo IV.

Poiché il presupposto per la patente è la esistenza di un cantiere ma non necessariamente di un cantiere gestito con le regole del Titolo IV, si deve ritenere che la patente vada richiesta anche quando i lavori edili vengono gestiti dai committenti non secondo il Titolo IV (PSC e POS) ma mediante DVR e DUVRI. Si tratta dei cantieri che vengono gestiti da committenti datori di lavoro, tramite appalti che comportano l’esecuzione di lavori edili o di genio civile all’interno delle aziende o comunque di luoghi nella disponibilità del committente. Il tema è il rapporto tra l’art. 26 ed il Titolo IV del Decreto 81, questione irrisolta nella normativa.

Qualunque sia la  modalità con cui il committente gestisce questo cantiere (DUVRI, DUVRI con richiesta del POS, DUVRI con PSC e POS, o altro), sicuramente siamo di fronte ad imprese e lavoratori autonomi che operano in cantieri temporanei o mobili; sicchè non sembrerebbero esservi argomenti per escludere, anche in questo caso, la necessità della patente. 

4. L’esonero per le imprese con attestato di qualificazione SOA.

L’obbligo di patente a crediti è prescritto in maniera indistinta per tutte le imprese e lavoratori autonomi che operano nei cantieri.

Non ci sono esenzioni dall’obbligo di possesso della patente basate sulla natura giuridica dell’operatore (ditta individuale, società, ecc.), sulla qualifica (impresa artigiana, ecc,.), sulla dimensione (personale, fatturato, ecc.), sulla natura dei rischi. 

Non ci sono neppure esenzioni basate sulla natura pubblica o privata del cantiere.

Gli unici soggetti che non sono tenuti al possesso della patente sono “le imprese in possesso dell’attestato di qualificazione SOA di cui all’articolo 100, comma 4, del codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo n. 36 del 2023”.

La norma richiama il sistema di qualificazione previsto dalla normativa sugli appalti pubblici di lavori, che consente l’accesso ai lavori pubblici di importo pari o superiore a euro 150.00,00 soltanto agli operatori economici dotati di attestato di qualificazione rilasciato dalle Società Organismi di Attestazione (SOA), società per azioni che a loro volta operano previa autorizzazione di ANAC. 

La condizione per l’esonero dalla patente è il possesso dell’attestato di qualificazione SOA; dovranno dunque possedere la patente non solo tutti gli operatori che non hanno mai lavorato con il pubblico, ma anche quelli privi di SOA che hanno lavorato e lavorano in cantieri pubblici per lavori di importo inferiore a euro 150.000. 

L’attestato di qualificazione SOA è dunque sostitutivo della patente, ma si tratta di una qualificazione che opera su presupposti e con finalità diversi da quelli dell’art. 27.

Dei requisiti previsti nel D.L. n. 19 per ottenere la patente, il sistema SOA ne richiede solo alcuni, che riguardano la regolarità dell’impresa  ma non direttamente la sicurezza (ad esempio, tra i requisiti generali: iscrizione CCIAA, regolarità contributiva, regolarità fiscale); certo alcune delle verifiche per il rilascio della SOA riguardano indirettamente le vicende dell’impresa (ad esempio, l’assenza di provvedimenti impeditivi di cui all’art. 14 del Decreto 81 o la mancanza di sentenze di condanna all’interno della configurazione del grave illecito professionale); ma la qualificazione SOA non ha per suo oggetto diretto l’adempimento degli obblighi del Decreto 81, non richiede né accerta l’esistenza di un DVR, né l’adempimento degli obblighi di formazione. Non a caso, l’attestazione SOA non è sostitutiva, nell’appalto pubblico, dell’obbligo del committente di verificare la itp dell’affidatario (e dei sub-affidatari) secondo le regole del Decreto 81/08 (art. 90 comma 9 e Allegato XVII).

Inoltre, l’attestazione SOA non è una qualificazione a crediti, non prevede alcun sistema di crediti né ovviamente alcuna decurtazione. 

Le circostanze che comportano decurtazione dei crediti in danno dei soggetti possessori di patente a crediti sono pertanto del tutto indifferenti per chi è titolare di attestazione SOA; il D.L. n. 19/24 non prevede nulla nei confronti di questi, né sarebbe materialmente possibile applicare la decurtazione rispetto ad una attestazione che non funziona con i crediti. 

Ci sono dunque due sistemi di qualificazione diversi, di cui uno è sottratto a tutta la disciplina dei crediti e del relativo sistema sanzionatorio. 

L’ultima annotazione sulle relazioni con il sistema SOA riguarda il fatto che, secondo l’art. 100 comma 10 del Codice dei Contratti Pubblici, il sistema di qualificazione dovrebbe essere esteso con apposito regolamento anche agli appalti di servizi e di forniture. Potrebbe derivarne un ulteriore effetto sul sistema della patente nei cantieri, in relazione alle imprese e lavoratori autonomi che in cantiere svolgono servizi e forniture e non lavori; a maggior ragione ci sarebbero rilevanti effetti se il sistema della patente venisse esteso “ad altri ambiti di attività” (nuovo art. 27, comma 10) diversi dai cantieri temporanei o mobili.

5. Il provvedimento di rilascio della patente

Sul funzionamento della procedura di rilascio della patente non si può dire molto, in attesa non solo della conversione in legge, ma anche del decreto del Ministero del Lavoro che ne definirà i contenuti.

Per ora, si può osservare che la patente si ottiene a domanda del soggetto interessato (nuovo art. 27, comma 9), cui segue un apposito provvedimento di rilascio da parte della competente sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. 

Il procedimento sarà verosimilmente diverso se il controllo dei requisiti da parte delle sedi INL sarà configurato come “check list” per verificare la mera presenza dei documenti (auspicabilmente non basterà l’autocertificazione), o invece come vero e proprio esame nel merito del contenuto degli stessi. La prima ipotesi appare più plausibile in termini di fattibilità concreta, di tempi di risposta, ed anche di “qualificazione” dell’autorità controllante; sarebbe tuttavia la conferma che il sistema, più che sulla qualificazione, poggia sui crediti e sulla loro decurtazione. La seconda ipotesi, in ogni caso, rischierebbe di trasformare le sedi INL in una sorta di depositarie dell’interpretazione autentica del Decreto 81, da cui dipenderebbe la prosecuzione stessa dell’attività del richiedente. 

Nel senso di un controllo “leggero” dei requisiti in sede di esame della domanda sembra essere anche la regola secondo cui “nelle more del rilascio della patente è comunque consentito lo svolgimento delle attività” (nuovo art. 27, comma 2). Di fatto, ciò che abilita l’impresa non è il rilascio della patente, ma la presentazione della domanda. 

Fa eccezione l’ipotesi di una eventuale “diversa comunicazione notificata” dall’INL; regola tutta da chiarire, implicando un potere ostativo di INL all’esercizio di attività di impresa, per il quale non potrà non esserci una disciplina a dir poco rigorosa. 

Altrettanto rigorosa disciplina dovrà essere prevista per il sindacato (amministrativo e giurisdizionale) del provvedimento finale dell’INL sulla domanda di patente; di certo non si tratta di un atto di polizia giudiziaria “non connotato da alcuna discrezionalità, neppure tecnica, ed emesso sotto la direzione funzionale dell’autorità giudiziaria” che ne esclude l’impugnabilità. 

6. I crediti. La decurtazione come nuova sanzione che si aggiunge a quelle esistenti.

Una sanzione automatica

Il Decreto Legge assegna ad ogni patente una dotazione iniziale di trenta crediti, esposta a possibili decurtazioni che fanno venire meno l’abilitazione quando si scende sotto la soglia minima di almeno quindici crediti. 

Sul sistema di attribuzione dei crediti, sul numero degli stessi, sulle modalità di decurtazione o di recupero, è inevitabile attendere la conversione in legge.

Quello che già ora si può dire è che la decurtazione dei punti è, a tutti gli effetti, una sanzione per l’impresa o il lavoratore autonomo: una sanzione nuova per natura, presupposti e disciplina, ma sicuramente una sanzione; inoltre, una sanzione che si aggiunge a tutte le altre che l’ordinamento già prevede, e che non vengono toccate (né menzionate) dal nuovo art. 27. 

E’ una sanzione che si applica, nel testo attuale, in maniera automatica: ciascuna tipologia di violazioni ha una sua sanzione predeterminata dalla legge; l’autorità che emana il provvedimento definitivo non ha  nessun potere, per quanto è dato capire, né sull’an della decurtazione (se irrogarla o meno) né sul quantum (non ci sono criteri di graduazione  o di proporzionalità rispetto al caso concreto). 

In sostanza, l’autorità che emana il provvedimento ha soltanto una funzione di registrazione del dato numerico, che va indicato all’interno del provvedimento medesimo: “ciascun provvedimento riporta i crediti decurtati” (comma 5); dopodichè ha una funzione di trasmissione: “l’amministrazione che ha formato gli atti e i provvedimenti definitivi…ne dà notizia, entro trenta giorni dalla notifica ai destinatari, anche alla competente sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, la quale procede entro trenta giorni dalla comunicazione alla decurtazione dei crediti” (comma 6).  

La decurtazione opera come conseguenza automatica della emanazione dei provvedimenti definitivi, ma produce i suoi effetti soltanto per effetto di un apposito provvedimento da parte della competente sede territoriale dell’INL, verosimilmente riconnesso alla gestione del portale di cui al comma 9 (sarà da capire come si produrrà poi in concreto l’effetto ostativo allo svolgimento dell’attività lavorativa).

L’automatismo della decurtazione e la gravità degli effetti che produce rendono fondamentale l’esame delle circostanze, che secondo il D.L. n. 19/2024 comportano la perdita di crediti: nello specifico, quali sono le violazioni punite e quali sono i provvedimenti che producono il loro effetto sulla patente. 

La decurtazione per accertamento di violazioni

Le decurtazioni dei crediti sono “correlate alle risultanze degli accertamenti e dei conseguenti provvedimenti definitivi” aventi ad oggetto le violazioni, il cui elenco suddiviso per gruppi è contenuto nel comma 4 del nuovo art. 27, ciascuno con la sua quota di crediti sottratti 

Il primo caso è “l’accertamento delle violazioni di cui all’Allegato I” (dieci crediti): sono le violazioni che determinano il provvedimento interdittivo previsto dall’art. 14 del Decreto 81.  

Il secondo caso è “l’accertamento delle violazioni che espongono i lavoratori ai rischi indicati nell’Allegato XI” (sette crediti). A differenza del precedente, si tratta di una sorta di contenitore aperto, che ruota intorno al concetto di esposizione al rischio prima ancora che alla violazione in sé; è legittimo il dubbio sulla mancanza di tassatività della norma, come pure sulle difficoltà di coordinamento con le violazioni di cui al caso precedente, sicuramente sovrapponibili in numerose ipotesi. 

Il terzo caso è dato dai “provvedimenti sanzionatori” di cui all’art. 3 del D.L. n. 12/2002 convertito in Legge n. 73/2002 (cinque crediti). Si tratta dell’impiego di lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato (questa violazione è oggetto anche di altra disposizione di questo stesso D.L., il comma 3 dell’art. 29, con cui è stata aggravata la misura della sanzione). Qui non si parla di accertamento di violazioni, ma direttamente di sanzioni. Non è comunque una fattispecie omogenea alle altre per tipologia di violazione.

Quello che si può osservare è che per tutte le tre categorie di violazioni, l’ordinamento già prevede specifiche conseguenze sanzionatorie (ivi compresi effetti di sospensione delle attività) e specifici procedimenti per l’irrogazione delle stesse; ancora più rilevante appare il fatto, che esistono specifici procedimenti per la regolarizzazione delle violazioni contestate. Il Decreto Legge non regola in alcun modo il doppio binario che si determina tra il procedimento che sanziona la violazione ed il procedimento di decurtazione dei punti. 

La decurtazione per accertamento di responsabilità per infortunio sul luogo di lavoro.

Altra ipotesi di decurtazione ricorre quando si verifica un infortunio – non si menziona la malattia professionale – “sul luogo di lavoro” (così testualmente la norma).

In questo caso la misura della decurtazione non è correlata alla violazione sottostante, bensì all’evento infortunio in sé, anzi più specificamente alle conseguenze dell’evento sulla persona del lavoratore: dai venti crediti in caso di morte si scende ai quindici in caso di inabilità permanente e infine ai dieci in caso di inabilità temporanea assoluta per più di quaranta giorni (condizione per la perseguibilità d’ufficio).

Presupposto della decurtazione è l’accertamento della responsabilità per l’infortunio; la norma parla di “riconoscimento della responsabilità datoriale”, e quindi alla lettera soltanto del datore di lavoro, mentre nel primo periodo del comma 4 i provvedimenti considerati sono quelli “emanati nei confronti dei datori di lavoro, dirigenti o preposti”; è un altro esempio di una tecnica legislativa incerta. 

I provvedimenti che causano la decurtazione dei crediti

Come si è visto, le decurtazioni dei crediti sono “correlate alle risultanze degli accertamenti e dei conseguenti provvedimenti definitivi”

Quali siano i provvedimenti, la norma non lo dice; dovrebbe trattarsi tanto di provvedimenti amministrativi quanto giurisdizionali; quanto al giudice, potrebbe non essere necessariamente quello penale (l’accertamento di una responsabilità datoriale in caso di infortunio potrebbe ben essere oggetto di sentenza del giudice civile o del lavoro). 

La definitività

Se un tema è la natura del provvedimento e la individuazione del soggetto emanante, il tema davvero centrale riguarda la definitività del provvedimento. 

Trattasi di requisito che appare a dir poco indispensabile, se solo si considera l’effetto espulsivo dal mercato che i provvedimenti in questione implicano, e ulteriormente se si considera che si tratta di una conseguenza automatica, sottratta perfino al potere dell’autorità che emana il provvedimento.

Rinviando a futuro esame tempi, modi e condizioni della definitività dei provvedimenti rispetto a ciascuna delle ipotesi di violazione, fin da subito si pone la questione, se nei provvedimenti definitivi vadano inclusi anche quei provvedimenti che, proprio rispetto alle violazioni catalogate nel nuovo art. 27, concludono il procedimento per effetto di regolarizzazione della violazione contestata e con accesso a forme sanzionatorie di natura premiale. Introdotti anche con specifica finalità di  deflazione del contenzioso, tali sono, tipicamente, i provvedimenti che concludono la procedura di prescrizione e ottemperanza del Decreto 758/94 o la procedura di diffida del Decreto 124/04 o la procedura di sospensione dell’attività lavorativa di cui all’art. 14 del Decreto 81/08 quando si provvede a regolarizzazione e revoca del provvedimento di sospensione. In relazione all’effetto ostativo al rilascio del DURC delle violazioni indicate nell’Allegato A al D.M. Lavoro 30.1.2025, l’art. 8 comma 3 dello stesso D.M. lo esclude in caso di ottemperanza alla prescrizione o alla diffida con estinzione del reato (ed anche in caso di oblazione ex art. 162 e 162-bis c.p.), e davvero non pare possibile giungere qui a conclusioni diverse; vero è però che nel D.L. n. 19/2024 manca una disposizione analoga. Laddove si volesse vedere in tali provvedimenti premiali un qualche riconoscimento implicito di responsabilità e quindi fossero considerati provvedimenti di “accertamento della violazione”, quindi rilevanti ai fini della qualificazione delle imprese (più precisamente, ai fini della decurtazione dei crediti delle loro patenti), l’effetto sulla sopravvivenza stessa di tali strumenti potrebbe essere enorme. 

Gli effetti della dotazione inferiore alla soglia minima.

Come si è visto, la dotazione sotto i quindici crediti non consente l’esercizio di attività di impresa nei cantieri.

Le modalità con cui si produrrà, in concreto, l’effetto ostativo saranno da vedere; nel frattempo il comma 8 prevede una sorta di clausola di salvaguardia rispetto alla immediatezza di tali effetti ostativi, perché fa salvo “il completamento delle attività oggetto di appalto o subappalto in corso al momento dell’ultima decurtazione dei crediti”. Non è specificato a chi spetterebbe autorizzare tale completamento; deve presumersi che sia un potere ancora una volta dell’INL.

La norma necessita di chiarimento sulla atecnica locuzione “attività”, se si tratti cioè di lavorazione, di fase della esecuzione dell’opera, di oggetto del contratto stipulato; per dare la risposta occorrerebbe comprendere la ratio della norma, che appare poco coerente con il sistema.

Sicuramente il comma 8 riecheggia il comma 4 dell’art. 14 del Decreto 81, che consente il posticipo di efficacia della sospensione ex art. 14 “dalla cessazione dell’attività lavorativa in corso che non può essere interrotta”; tuttavia, aldilà della ben maggiore specificazione di quest’ultima norma, è da capire in quali termini la salvezza del completamento delle attività sia compatibile con la sospensione della patente. La sospensione ex art. 14 infatti è un provvedimento interdittivo comunque temporaneo, con ragioni di tutela immediata dei lavoratori rispetto alle violazioni accertate, che sospende la “parte dell’attività imprenditoriale interessata dalle violazioni”. La sospensione della patente è invece uno strumento di qualificazione del mercato (sia pure in negativo, attraverso l’espulsione da esso, e non in positivo attraverso la valorizzazione delle imprese virtuose); sicchè per un verso il D.L. sancisce che un’impresa con meno di quindici crediti non può rimanere nel mercato,  per il verso opposto però si concede che, almeno per un po’, quella stessa impresa continui il suo lavoro. 

La sospensione “cautelativa” della patente in caso di morte o inabilità permanente.

Il possesso della patente, fintantochè i crediti sono almeno quindici, consente alle imprese ed ai lavoratori autonomi di operare nei cantieri, indipendentemente da qualsiasi circostanza. 

Esiste tuttavia una eccezione rilevantissima a questa regola.

Secondo il comma 5 del nuovo art. 27, in caso di infortunio da cui sia derivata la morte o una inabilità al lavoro assoluta o parziale, la competente sede territoriale dell’INL “può sospendere, in via cautelativa, la patente fino a un massimo di dodici mesi”.

Si tratta, a nostro avviso, di una delle norme più problematiche dell’intero Decreto, a maggior ragione considerando che criteri, procedure e termini del provvedimento che dispone la sospensione saranno determinati dallo stesso INL.

Il primo aspetto da considerare di questo potere dell’INL riguarda il suo presupposto fattuale: in attesa dei contenuti che potrà avere la disciplina attuativa, il dato normativo dice che il verificarsi di un infortunio con morte o inabilità permanente può essere da solo sufficiente per decretare la sospensione della patente e quindi la impossibilità di un’impresa o di un lavoratore autonomo a lavorare. Non serve un provvedimento a monte per quanto provvisorio; non è necessario neanche che sia ravvisata o anche solo ipotizzata una responsabilità; tantomeno serve che l’infortunio venga ricondotto ad una qualsiasi violazione della normativa, anche solo contestata; per la sospensione è sufficiente il fatto storico dell’infortunio.

Il secondo aspetto che contraddistingue questo potere di sospensione cautelativa riguarda il fattore temporale. Il richiamo alla finalità “cautelativa” e la natura stessa di misura eccezionale rispetto alla sospensione ordinaria rivelano l’intento di collocare questa sospensione della patente in un momento ravvicinato rispetto all’evento, come una sorta di prima risposta all’accaduto. Ora, questa immediatezza temporale appare poco compatibile con l’ipotesi di infortunio che determini inabilità permanente, la quale presuppone una valutazione medico-legale necessariamente all’esito di un decorso clinico; ed è sicuramente da escludere che possa bastare una mera prognosi preventiva di inabilità, sia perché la norma riguarda infortuni “da cui sia derivata” l’inabilità, sia perché non può certo pensarsi che la norma abbia inteso attribuire all’INL una sorta di ruolo di preventiva autorità medico-legale al solo fine di sospendere la patente. Ben diverso però è il discorso in caso di infortunio mortale (quello probabilmente cui davvero pensava chi ha scritto la norma), dove non c’è nessun limite all’immediato esercizio del potere da parte dell’INL. Il solo baluardo è rappresentato dal requisito della finalità “cautelativa”, all’interno di un onere motivazionale che necessariamente dovrà concretizzarsi in qualcosa di più del tautologico riferimento all’evento appena accaduto.

Quanto agli effetti, la sospensione ha per oggetto la patente, cioè vieta, a chi la subisce, di operare in tutto e per tutto. Nessuna comparazione è possibile quindi, neanche in questo caso, con il potere di sospensione dell’attività attribuito dall’art. 14 del Decreto 81/08 al medesimo INL (oltre che ai servizi ispettivi delle ASL, qui ignorati): come detto sopra, quel potere presuppone la contestazione di una violazione,  e poi si tratta di sospensione limitata alla parte dell’attività imprenditoriale interessata dalla violazione e la norma non vuole fermare l’attività in toto (tanto che alla irregolarità dell’unico occupato dell’impresa non segue la sospensione); inoltre quella sospensione è comunque suscettibile di revoca tramite regolarizzazione della fattispecie, mentre la sospensione cautelativa della patente può arrivare fino a dodici mesi, sempre ed esclusivamente a discrezione della sede INL, ed allo stato non prevede nessun meccanismo di revoca.

Rimane del tutto indeterminato, in tale generalissimo potere di sospensione “cautelativa”, anche chi possa essere il destinatario del provvedimento interdittivo: la norma non fa nessun riferimento solo al datore di lavoro, sicchè potrebbe essere sospesa l’impresa affidataria per infortunio del lavoratore in subappalto, o altre imprese o altri lavoratori autonomi comunque operanti nello stesso cantiere, oppure tutti. 

L’ultima annotazione è legata sempre al profilo soggettivo: la sospensione cautelativa non potrà mai colpire le imprese ed i lavoratori autonomi che sono dotati di attestazione SOA. Il motivo è semplice: manca, in questo caso, la patente da sospendere.

7. Le vicende dei crediti

La reintegrazione dei crediti e l’incremento dei crediti. 

“I crediti decurtati possono essere reintegrati” (comma 7) tramite frequenza di corsi di formazione (non necessariamente specifici per il reintegro, a quanto pare, essendoci un rinvio generale ai corsi “di cui all’articolo 37, comma 7”). Ancora una volta non è il caso di entrare nel merito specifico del sistema di recupero dei crediti , del loro numero, delle procedure, fino a che non sarà convertita la norma.

La norma prevede anche un meccanismo di incremento dei crediti, uno per anno fino ad un massimo di dieci; questo incremento però è riconosciuto soltanto “trascorsi due anni dalla notifica degli atti e dei provvedimenti di cui ai commi 4 e 5”, richiede la preventiva trasmissione all’INL di copia dell’attestato di frequenza a un corso di recupero dei crediti, e spetta soltanto a condizione che il beneficiario non sia stato destinatario “di ulteriori atti o provvedimenti di cui ai commi 4 e 5”

Sembrerebbe dunque che l’incremento automatico dei crediti in virtù del decorso del tempo sia riconosciuto soltanto a chi sia incorso in uno dei casi di decurtazione, e non per i soggetti “virtuosi”; in sostanza, si tratterebbe di un’altra modalità di recupero dei crediti persi, e non di crediti-premio per coloro che non subiscono accertamenti di violazioni. Lo confermerebbe la circostanza, che i crediti recuperabili possono essere al massimo quindici, computo in cui vanno compresi tutti “i crediti riacquistati ai sensi del presente comma”, quindi sia quelli da corsi di recupero sia quelli annuali (a meno che “riacquistati” non si riferisca solo ai corsi).

Urge chiarezza e anche semplificazione.

I crediti per adozione di Modelli 231.

Ancora diversa fattispecie è quella prevista nell’ultimo periodo del comma 7, che sembrerebbe riconoscere cinque crediti aggiuntivi per le imprese che adottano “modelli di organizzazione e di gestione di cui all’art. 30”, cioè modelli con efficacia esimente ai sensi del D.Lgs. n. 231/01. Diciamo “sembrerebbe” perché viene previsto che il punteggio è “inoltre” incrementato, configurando cioè l’incremento come un meccanismo che si affianca alle misure previste nelle parti precedenti del comma 7, che riguardano solo i soggetti che hanno ricevuto atti e provvedimenti di decurtazione. Il dubbio poi è se anche questi cinque crediti concorrono al raggiungimento dei quindici che rappresentano il massimo dei crediti riacquistabili “ai sensi del presente comma”.

Si tratterebbe in sostanza di una sorta di self cleaning rispetto a pregresse violazioni, più che di una norma premiale per chi è dotato di MOG e cioè di una vera norma di “qualificazione”. 

8. Le sanzioni

Ai sensi del nuovo art. 27 comma 1, il possesso della patente è un obbligo per le imprese ed i lavoratori autonomi che operano nei cantieri; ai sensi del comma 8 secondo periodo, operare “privi della patente” comporta (i) una sanzione amministrativa da euro 6.000,00 a euro 12.000,00  non regolarizzabile con il pagamento agevolato dell’art. 301-bis; (ii) l’esclusione dalla partecipazione ai lavori pubblici per sei mesi (la norma riguarda ovviamente soltanto chi esegue lavori fino a 150.000 euro senza SOA; se c’è la SOA, non è configurabile l’illecito di attività senza patente perché non serve la patente).

Il medesimo regime sanzionatorio si applica a chi opera con una patente con meno di quindici punti, equiparando in sostanza ai fini sanzionatori chi perde più di quindici punti a chi non ha mai chiesto la patente.

Non esiste una sanzione specifica per chi opera in regime di patente sospesa in via cautelativa.

Il quadro sanzionatorio, tuttavia, non si esaurisce qui; l’assenza dei requisiti abilitanti potrà rilevare sotto innumerevoli profili, siano di essi di natura penale, civile, amministrativa, non solo in caso di ispezioni o di eventi infortunistici, ma anche ai fini della validità dei contratti stipulati o in generale della liceità stessa dell’esercizio di attività di impresa.

Il che conduce ad esaminare l’altro ambito in cui la patente a crediti impatta in maniera formidabile, che è quello della committenza e, più in generale, della organizzazione dei cantieri e della gestione degli appalti: tema che il legislatore ha affrontato con la modifica delle regole sulla verifica delle imprese e dei lavoratori autonomi da parte dei committenti pubblici e privati.

10. I committenti: la modifica dell’art. 90, comma 9 e dell’art. 157, comma 1, lettera c)

Nuovi obblighi per il committente: verificare la patente e la SOA

Il committente di cantieri, cioè il soggetto che affida l’esecuzione di lavori edili o di genio civile di cui all’Allegato X del Decreto 81/08, ha un nuovo obbligo: “verifica il possesso della patente di cui all’articolo 27 nei confronti delle imprese esecutrici o dei lavoratori autonomi, anche nei casi di subappalto, ovvero, per le imprese che non sono tenute al possesso della patente ai sensi del comma 8 del medesimo art. 27, dell’attestato di qualificazione SOA” (nuovo art. 90, comma 9, lettera b-bis).

La violazione dell’obbligo è punita dal nuovo art. 157 comma 1 lettera c) “con la sanzione amministrativa pecuniaria da 711,92 a 2.562,91 euro”

L’obbligo non sostituisce la verifica di idoneità tecnico-professionale di cui all’art. 90, comma 9 lettera a) effettuata secondo l’Allegato XVII: questa norma rimane invariata.

Si tratta dunque di un obbligo aggiuntivo: oltre che i documenti dell’Allegato XVII, il committente deve chiedere anche la patente a crediti o la attestazione SOA, posto che l’impresa o il lavoratore autonomo necessariamente devono possedere o l’una o l’altra.

In forza di questa sommatoria di obblighi, il committente deve verificare che esistano i requisiti sostanziali che comprovano l’idoneità a fini di sicurezza di una impresa o di un lavoratore autonomo (Allegato XVII); però poi deve verificare anche il possesso di un requisito formale, la patente o la SOA.

Per i committenti privati la novità è assoluta: è nuovo dover richiedere la patente a crediti, che non esisteva; è nuovo dover richiedere la SOA, che era strumento tipico dei cantieri pubblici ma che ora diventa invece strumento “ordinario” anche per i cantieri privati.

Per i committenti pubblici la novità riguarda tutti gli affidamenti di lavori per i quali la SOA non è necessaria ai sensi del Codice dei Contratti Pubblici, perché necessariamente il committente deve richiedere la patente a crediti. Per tutti i cantieri in cui la SOA era e rimane requisito per l’affidamento in base al Codice dei Contratti Pubblici, non cambia nulla sul piano materiale dei documenti da acquisire; la differenza è rappresentata dal fatto che la eventuale mancanza di SOA non viola soltanto la normativa sugli appalti pubblici, ma  configura un nuovo illecito che colpisce chi nella stazione appaltante  è il committente, cioè la violazione dell’art. 90 comma 9 lettera b-bis): ovviamente la criticità investe in generale tutto il cantiere, stante la presenza di un operatore privo di abilitazione ai fini della sicurezza.

La verifica dei subappaltatori

I nuovi obblighi valgono per il committente “anche nei casi di subappalto”: vale a dire che il committente deve verificare direttamente patente o SOA anche dei subappaltatori (nozione restrittiva, rispetto al più generale novero dei sub-affidatari che includono naturalmente tante altre soluzioni contrattuali).

L’obbligo è coerente con la disciplina dettata dall’art. 90 comma 9 lettera a) del Decreto 81, che impone al committente di provvedere alla verifica di itp sia nei confronti dell’impresa affidataria che di tutte le imprese esecutrici e lavoratori autonomi. Coerentemente, anche la verifica del possesso della patente deve essere svolto rispetto a tutti i livelli della filiera; anzi, ciò si spiega a maggior ragione per uno strumento come la patente, che almeno negli intenti mira proprio ad un migliore controllo della filiera degli appalti. 

La verifica da parte dell’impresa affidataria

Il riferimento ai subappaltatori pone la questione, se la verifica del possesso della patente debba essere svolto anche dall’affidataria nei confronti dei propri sub-affidatari.

L’art. 90 non ne fa cenno, ma è una norma che non riguarda l’affidataria: gli obblighi di questa sono contenuti nell’art. 97, il cui comma 2 in particolare prevede l’obbligo di verifica dell’itp dei subaffidatari tramite un rimando all’art. 26 e salvo specificare che le modalità non sono quelle dell’art. 26 comma 1 lettera a) ma sono quelle dell’Allegato XVII.

Non avere previsto la verifica della patente da parte dell’impresa affidataria è verosimilmente una lacuna da correggere, non essendo ragionevole un sistema che esonera dall’obbligo di verificare la qualificazione dei propri subaffidatari proprio l’impresa che ha ruolo centrale nella filiera del cantiere, cioè appunto l’affidataria. D’altra parte, anche in mancanza di una specifica contravvenzione, difficilmente potrebbe ritenersi priva di conseguenze la condotta di un’impresa affidataria che introducesse in cantiere un proprio subappaltatore privo di un requisito abilitante, quale è la patente.

11. Gli effetti sull’art. 26, comma 1, lettera a).

Secondo l’art. 26 comma 1 lettera a), il committente che affida lavori “intra-aziendali” deve eseguire la verifica di itp delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi richiedendo visura camerale e autocertificazione, ma solo fino alla data di entrata in vigore “del decreto di cui all’art. 6 comma 8 lettera g)”: vale a dire, il decreto destinato a dare attuazione al sistema di qualificazione di cui all’art. 27. In sostanza, nel disegno dell’art. 26, una volta introdotto un sistema di qualificazione, questo dovrebbe valere anche ai fini della verifica di itp.

Ora, se è vero che il D.L. n. 19/2024 non menziona affatto l’art. 6 comma 8 lettera g), ed anzi come si è visto lo ha sostanzialmente rimosso dall’ordinamento, è altrettanto vero che la patente a crediti  costituisce, almeno per i lavori edili, il sistema di qualificazione di cui all’art. 27; e l’art. 6 comma 8 lettera g) doveva, appunto, dettare i criteri per quel sistema. E’ lecito quindi concludere che, nella sostanza, la patente a crediti rappresenta quel sistema di qualificazione il cui avvento avrebbe dovuto significare la fine della verifica di itp tramite visura e autocertificazione.

Se si dà prevalenza al fatto che i lavori edili rendono il luogo un cantiere, si applicano le regole del cantiere (quelle secondo cui verifica di itp e verifica della patente si sommano); se si dà prevalenza al fatto che i lavori si svolgono all’interno dell’azienda, si applicano le regole dell’appalto intra-aziendale (e quindi la verifica di itp coincide con la verifica della patente).

Poiché non appare ragionevole che la patente operi in maniera diversa per un cantiere a seconda che sia o non sia “intra-aziendale”, a noi pare logico concludere che, ai fini della qualificazione e della verifica di itp, le regole dell’art. 90 comma 9 (e cioè la sommatoria delle due verifiche) vale per tutti i cantieri edili, ivi compresi quelli “intra-aziendali” formalmente riconducibili anche all’art. 26.

Però la scelta del legislatore mostra due cose: da un lato, rivela una sottovalutazione dell’art. 27, norma di sistema molto più di quanto il D.L. mostri di considerarla; dall’altro lato, sembra la conferma che della patente a crediti si è voluto esaltare, almeno per ora, la valenza punitiva piuttosto che una efficacia qualificatoria cui nemmeno il legislatore sembra davvero credere, visto che rimane in vigore l’obbligo di verifica della idoneità tecnico-professionale.

12. La sicurezza è organizzazione. La patente è organizzazione, o è solo sanzione? 

Al netto delle innumerevoli e vistose criticità, la patente a crediti presenta un indiscutibile profilo di novità. 

L’introduzione di un requisito formale abilitante, quale è la patente, può avere un impatto molto importante sugli appalti; sugli appalti, prima ancora che sui cantieri.

La distinzione è qui voluta, per rimarcare come non si tratti solo di prevenzione nei luoghi “fisici” del lavoro, ma anche se non soprattutto di organizzazione, di gestione, di adeguato approfondimento degli aspetti contrattuali, organizzativi e procedurali.

Sia per i committenti, sia per le imprese affidatarie, sia per le altre figure dell’appalto, la patente pone in luce, con la sua sola esistenza, la centralità delle scelte organizzative; enfatizza la necessità di prefigurare fin da subito come sarà il cantiere; di individuarne i protagonisti; di mettere a punto i livelli della filiera. Inoltre, essendo un requisito che deve essere mantenuto nel tempo, e come tale nel tempo va verificato, incide sulla gestione; e poi ancora, sui contenuti dei contratti che regolano i rapporti tra le parti.

E’ questo il senso ultimo della patente che, a nostro avviso, deve essere valorizzato.

L’auspicio è che vengano superate, in sede di conversione del D.L. n. 19/2024, non soltanto le numerose imperfezioni tecniche e incertezze letterali, ma anche e soprattutto i meccanismi sommari ed autoreferenziali che esso introduce, incoerenti non soltanto con i principi fondamentali dell’ordinamento, ma con le stesse regole della sicurezza e salute nei luoghi di lavoro.

La patente a crediti – webinar gratuito

Il DL n. 19/2024 ha introdotto la “patente a crediti” come nuovo strumento di tutela del lavoro nei cantieri.
Approfondiamo il funzionamento della patente e le sue criticità in questo webinar.

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Le forme societarie per i servizi di architettura e ingegneria

Studi associati, società di ingegneria, STP: quali sono le forme societarie per i servizi di architettura e ingegneria?
L’avv. Giovanni Scudier ne parla al seminario organizzato dall’OAPPC di Padova per il giorno 15 novembre 2022.

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Arriva la certificazione della parità di genere con vantaggi economici e incentivi. Cos’è, come si fa, chi ne può beneficiare.

L’art. 46-bis della legge n. 162 del 5 novembre 2021 ha introdotto la “Certificazione della parità di genere” all’interno del Codice delle Pari Opportunità. Con l’adozione dei provvedimenti attuativi, ora i datori di lavoro (tutti) possono certificare le loro organizzazioni, attestando le politiche e le pratiche aziendali con cui concorrono a ridurre il divario di genere. E l’ordinamento li premia con sconti sui contributi previdenziali, punteggi premiali nei progetti finanziati, maggiori punteggi negli appalti pubblici.

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1. La parità di genere: un principio fondamentale, un motore di crescita, un obiettivo da incentivare

La parità di genere tra uomini e donne è oramai universalmente riconosciuta, anche sul piano istituzionale e normativo, come un principio fondante della vita democratica e insieme uno straordinario motore di crescita e uno dei capisaldi più rilevanti e urgenti dell’agenda di sviluppo sostenibile e progresso dei Paesi. E’ uno dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, è oggetto della Strategia Gender Equality 2020-2025 dell’Unione Europea, per la prima volta ha dato origine ad una Strategia Nazionale per la Parità di Genere all’interno dell’ordinamento italiano (quinquennio 2021-2026) secondo cinque priorità (Lavoro, Reddito, Competenze, Tempo, Potere), ciascuna contraddistinta da indicatori e valori target da raggiungere.

Nel PNRR la parità di genere rappresenta una delle tre priorità trasversali in termini di inclusione sociale, unitamente a Giovani e Mezzogiorno.

Proprio in ambito di appalti finanziati con le risorse del PNRR il legislatore aveva dato recentemente un forte segnale, rafforzando presenza e funzione del Rapporto sulla situazione del personale previsto dall’art. 46 del Codice delle Pari Opportunità, introducendo l’obbligo di una relazione di genere sul personale da presentare dopo la conclusione dell’appalto, e poi ancora introducendo requisiti necessari nonché meccanismi premiali e benefici per promuovere una maggiore partecipazione di donne (e di giovani) al mercato del lavoro.

In particolare, secondo l’art. 47 del D.L. n. 77/21 le stazioni appaltanti devono prevedere come requisito necessario dell’offerta l’obbligo di assicurare all’occupazione femminile e giovanile almeno il 30% delle assunzioni necessarie all’esecuzione del contratto, e possono prevedere punteggi aggiuntivi in sede di valutazione dell’offerta dell’operatore economico che si impegni ad assumere donne e giovani oltre la soglia minima del 30%, che utilizzi specifici strumenti di conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro per i propri dipendenti, che nell’ultimo triennio abbia rispettato i principi della parità di genere e adottato specifiche misure per promuovere le pari opportunità di genere, anche tenendo conto dei livelli retributivi e del conferimento di incarichi.

Dopodichè, l’azione del Legislatore e del Governo, volta ad incentivare la parità di genere con meccanismi premiali per gli operatori economici – la c.d. premialità di parità – non si è fermata al PNRR.

2. La Certificazione della parità di genere: cos’è e come si ottiene

Con una previsione di carattere generale, che riguarda tutti i datori di lavoro indistintamente, l’art. 4 della legge n. 162 del 5 novembre 2021 ha introdotto all’interno del Codice delle Pari Opportunità l’art. 46-bis che regola la “Certificazione della parità di genere”.

Si tratta di una vera e propria certificazione, volta ad attestare le politiche e le pratiche aziendali adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità.

Lo strumento dunque è innovativo, quanto all’oggetto e al fine per cui viene introdotto; ma al tempo stesso è uno strumento già noto e sperimentato in altri ambiti, il che può renderne a maggior ragione interessante – oltre che più agevole sul piano dell’esperienza concreta – l’attuazione e il conseguimento.

In cosa consiste la certificazione? Come si può ottenere?

La legge n. 162/2021, integrata dall’art. 1 comma 147 della Legge n. 234/2021, ha demandato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri l’individuazione dei parametri minimi per il conseguimento della certificazione, e il Ministro per le Pari Opportunità e la Famiglia a ciò delegato ha provveduto con il Decreto del 29 aprile 2022, che è stato infine recentemente pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 152 del 1 luglio 2022.

Il Decreto a sua volta recepisce i contenuti della Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022, una prassi (non una norma nazionale) risultato di un apposito Tavolo di lavoro istituito presso il Consiglio dei Ministri e coordinato dal Dipartimento per le Pari Opportunità.

A questa Prassi occorre dunque guardare, per definire il percorso che conduce alla Certificazione di parità di genere.

La Prassi UNI/PdR 125:2022 è denominata «Linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere che prevede l’adozione di specifici KPI (Key Performance Indicator – indicatori chiave di prestazione) inerenti alle politiche di parità di genere nelle organizzazioni».

Essa ha come obiettivo l’individuazione di virtuose pratiche aziendali di parità di genere e la regolamentazione dell’accesso alla certificazione; come dice la sua stessa denominazione, il sistema opera attraverso la definizione di una serie di indicatori di risultato, qualitativi e quantitativi, in relazione a sei Aree di valutazione.

Ogni Area ha un peso percentuale con cui si misurano il livello dell’organizzazione e poi gli stati di avanzamento nel tempo; per ciascuna Area sono identificati dei KPI (indicatori di prestazione) che misurano “il grado di maturità dell’organizzazione”.

Gli indicatori sono di natura quantitativa (delta % rispetto a un valore aziendale o nazionale o per tipo di attività-codice ATECO) e qualitativa (presenza o non presenza); ogni indicatore è associato ad un punteggio il cui raggiungimento viene ponderato per il peso dell’Area di appartenenza.

Le organizzazioni che raggiungono un punteggio minimo complessivo del 60% hanno accesso alla certificazione, che viene rilasciata da organismi di valutazione accreditati ai sensi del Regolamento (CE) n. 765/2008, i quali operano secondo regole di certificazione, acquisizione di documenti, audit dedicati.

Di seguito qualche esempio di indicatori nelle sei aree di valutazione:

  • Cultura e strategia (peso 15%): implementazione di un piano strategico per un ambiente di lavoro inclusivo (20 punti); interventi formativi sulla differenza di genere (10 punti);
  • Governance (peso 15%): definizione nella governance dell’organizzazione di un presidio sulle tematiche di genere (25 punti); presenza di esponenti del sesso meno rappresentato nell’organo amministrativo (20 punti);
  • Processi HR (peso 10%): gestione di processi di gestione e sviluppo delle risorse umane a favore dell’inclusione (25 punti); presenza di referenti e prassi aziendali a tutela dell’ambiente di lavoro in riferimento a molestie e a mobbing (10 punti);
  • Opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda (peso 20%): percentuale di donne con qualifica di dirigente (25 punti);
  • Equità remunerativa per genere (peso 20%): percentuale di differenza retributiva per medesimo livello (40 punti); percentuale promozioni donne su base annua (30 punti);
  • Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro (peso 20%): presenza di servizi dedicati al rientro post maternità/paternità (20 punti); presenza di servizi per favorire la conciliazione dei tempi di vita personale e lavorativa (35 punti).

3. La Certificazione della parità di genere: chi la può ottenere

La certificazione è uno strumento di applicazione generale, aperto all’intera platea dei datori di lavoro senza distinzioni: come recita la UNI/PdR, la certificazione può essere richiesta “da qualunque tipo di organizzazione, di qualsiasi dimensione e forma giuridica, operante nel settore pubblico o privato”. Sono escluse (solo) “le Partite IVA che non hanno dipendenti e/o addetti”.

E’ interessante sottolineare che, per rendere effettiva questa possibilità di accesso, la PdR classifica le organizzazioni in quattro fasce/cluster, suddivisi per numero di addetti: Micro (1-9); Piccola (10- 49); Media (50-249); Grande (250 e oltre).

Nella definizione dei set di indicatori, sono previste delle semplificazioni per gli appartenenti alle prime due fasce, cui alcuni indicatori non si applicano o si applicano con criteri meno rigorosi (ad esempio, la crescita nella percentuale di donne nell’organizzazione si calcola rispetto ai valori aziendali storici e non rispetto al valore medio della industry di appartenenza).

In questo modo, anche le organizzazioni meno strutturate o anche solo di più ridotte dimensioni possono accedere ai benefici della certificazione.

Va ricordato, da ultimo, che esistono anche alcune circostanze ostative al conseguimento della certificazione, tali da vietarne il riconoscimento pure se siano raggiunti i punteggi minimi richiesti. In particolare, il d.lgs. n. 105/2022 prevede un vero e proprio “impedimento” alla certificazione se risulti nei due anni precedenti alla richiesta il rifiuto, l’opposizione o l’ostacolo alla fruizione dei diritti relativi a congedo di maternità e paternità o per eventi e cause particolari, congedo parentale, permessi e riposi per disabilità.

4. La Certificazione della parità di genere: benefici, vantaggi, incentivi

La UNI/PdR 125:2022 (paragrafo “Obiettivi e strumenti”) ricorda che “il sistema economico funziona per incentivi”. Il meccanismo di premialità è un elemento centrale nella costruzione del sistema di certificazione di parità.

Non a caso, la “Premialità di parità” è stata già prevista fin dalla legge introduttiva della Certificazione, in particolare dall’art. 5 della legge n. 162/2021, che prevede in favore delle aziende private le agevolazioni e gli incentivi come di seguito elencati:

• (per l’anno 2022 e nel limite di 50 milioni di euro) è concesso un esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali in misura non superiore all’1% e nel limite massimo di 50.000 euro annui per ciascuna azienda; la legge espressamente prevede che l’esonero potrà essere previsto anche per gli anni successivi, previa emanazione di provvedimento legislativo che stanzi le occorrenti risorse finanziarie;

• per le aziende private che, alla data del 31 dicembre dell’anno precedente a quello di riferimento, siano in possesso della certificazione della parità di genere è riconosciuto un punteggio premiale per la valutazione, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, di proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti;

• le amministrazioni aggiudicatrici adottano criteri premiali nella valutazione delle offerte per servizi, forniture, lavori e opere.

Dando seguito a tale ultima previsione, il legislatore (D.L. n. 36/2022) è intervenuto direttamente anche sul testo del Codice dei Contratti Pubblici, modificando l’art. 93 e l’art. 95 e prevedendo

  • una riduzione del 30% dell’importo della garanzia per la partecipazione a gare pubbliche;
  • l’indicazione da parte delle amministrazioni aggiudicatrici , nei bandi, avvisi e inviti, di maggiori punteggi per le offerte caratterizzate da politiche per la parità di genere “comprovata dal possesso di certificazione della parità di genere”.

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Nuove prospettive da applicare al cleaning

Seminario residenziale per aumentare le competenze e la professionalità delle imprese di pulizie.

Giovedì 23 giugno alle ore 18:00.
Sicurezza: la figura del preposto obblighi e responsabilità. La mini riforma della sicurezza del lavoro. Nuova disciplina della vigilanza e del preposto.

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Congresso ANMA: attualità e prospettive del medico competente

Nei giorni 9-11 giugno si tiene a Perugia il Congresso di ANMA-Associazione Nazionale Medici d’Azienda e Competenti.

L’avv. Giovanni Scudier, componente del Comitato Scientifico dell’Associazione, interverrà con una relazione che approfondisce il ruolo tecnico-giuridico del Medico Competente visto nei suoi molteplici profili: professionista medico, cui il Decreto 81 riserva un ruolo esclusivo, ma chiamato anche ad interfacciarsi con il sistema sanitario nazionale e con le sfide del Piano Nazionale di Prevenzione; consulente del datore di lavoro, inserito nel contesto aziendale non solo per la programmazione ed effettuazione della sorveglianza sanitaria, ma anche per la valutazione dei rischi; posizione di garanzia, all’interno del sistema di sicurezza aziendale finalizzato alla tutela del lavoratore.

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I preposti e la vigilanza aziendale: cambia la sicurezza sul lavoro

La recentissima riforma del Decreto 81/08 modifica profondamente le regole della vigilanza aziendale.
Cambiano gli obblighi del preposto,  ma soprattutto viene richiesto alle aziende di intervenire sull’organizzazione e sulla formazione, con effetti sugli organigrammi ed anche sui contratti di lavoro. In questa scheda sono approfondite le novità e le misure da adottare.

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La mini-riforma della sicurezza sul lavoro (Legge n. 215/2021, artt. 13 e 13-bis). La nuova disciplina del preposto.

La legge 17 dicembre 2021 n. 215 ha convertito in legge il D.L. n. 146/2021, il cui Capo III (artt. 13 e 13-bis) è dedicato a misure per il rafforzamento della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. In sede di conversione sono state apportate profonde modifiche alla disciplina degli articoli 18, 19, 26 e 37 del Decreto 81/08 in tema di vigilanza e di preposto. Oltre a riscrivere in maniera più netta gli obblighi del preposto, la riforma rafforza la presenza di questa figura nell’organigramma con effetti sull’intero sistema di sicurezza aziendale, sull’assetto dell’attività di vigilanza, sul contenuto dei contratti di lavoro.

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  1. La riforma degli artt. 18, 19, 26 e 37: nuove regole per i preposti

La Legge n. 215/2021 di conversione del D.L. n. 146/2021 ha modificato, tra gli altri, gli articoli 18, 19, 26 e 37 del Decreto 81/08 in materia di preposto.

E’ una modifica passata un po’ in sordina, forse per il maggior clamore suscitato dalla riforma dell’art. 14 del Decreto 81/08 sulla sospensione dell’attività imprenditoriale e dalla riconfigurazione del ruolo dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, forse perché sembra contenere soltanto il dettaglio di principi già noti; in realtà le nuove disposizioni, oltre a richiedere un necessario aggiornamento anche formale dei documenti di sicurezza aziendali, lasciano trasparire una nuova prospettiva nell’approccio al tema della vigilanza che potrebbe rivelarsi assai impattante sui tradizionali assetti normativi della sicurezza sul lavoro.

Vediamo innanzitutto le novità.

Art. 18

Nel nuovo art. 18, all’elenco degli obblighi di datore di lavoro e dirigente è stata aggiunta al comma 1 la lettera b-bis), che: 

– impone  di “individuare il preposto o i preposti per l’effettuazione delle attività di vigilanza di cui all’art. 19”; 

– dispone che “i contratti e gli accordi collettivi di lavoro possono stabilire l’emolumento spettante al preposto per lo svolgimento delle attività di cui al precedente periodo”; 

– infine sancisce che “il preposto non può subire pregiudizio alcuno a causa dello svolgimento della propria attività”.

Art. 19

E’ stata riformata la lettera a) dell’art. 19: è confermata la prima parte, secondo cui il preposto deve sovrintendere e vigilare che i lavoratori rispettino le disposizioni ricevute, cambia la seconda parte e cioè l’obbligo di fare che nasce dall’esercizio della vigilanza: 

“in caso di rilevazione di non conformità comportamentali in ordine alle disposizioni e istruzioni impartite dal datore di lavoro e dirigenti ai fini della protezione collettiva e individuale, intervenire per modificare il comportamento non conforme fornendo le necessarie indicazioni di sicurezza”; 

– in via ulteriore, “in caso di mancata attuazione delle disposizioni impartite o di persistenza della inosservanza, interrompere l’attività del lavoratore e informare i superiori diretti”.

E’ nuova anche la lettera f-bis dell’art. 19: il preposto deve 

“in caso di rilevazione di deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e di ogni condizione di pericolo rilevata durante la vigilanza, se necessario, interrompere temporaneamente l’attività e, comunque, segnalare tempestivamente al datore di lavoro e al dirigente le non conformità rilevate”.

Art. 26

All’articolo 26 viene aggiunto il comma 8-bis: 

“Nell’ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto o subappalto, i datori di lavoro appaltatori o subappaltatori devono indicare espressamente al datore di lavoro committente il personale che svolge la funzione di preposto”.

Art. 37

Confermato l’obbligo di formazione dei preposti di cui al comma 7, viene aggiunto un nuovo comma 7-ter:

“Per assicurare l’adeguatezza e la specificità della formazione nonché l’aggiornamento periodico dei preposti ai sensi del comma 7, le relative attività formative devono essere svolte interamente con modalità in presenza e devono essere ripetute con cadenza almeno biennale e comunque ogni qualvolta sia reso necessario in ragione dell’evoluzione dei rischi o all’insorgenza di nuovi rischi.”

Art. 55

Cambia il quadro sanzionatorio per il datore di lavoro: 

la sanzione già prevista dal comma 5 lettera c) per la violazione dell’obbligo di formazione di cui al comma 7 dell’art. 37 viene estesa anche al comma 7-ter; 

viene modificato il comma 5 lettera d) introducendo la nuova e diversa sanzione dell’arresto da due a quattro mesi o ammenda da 1.500 a 6.000 euro, la quale viene estesa alla violazione dell’obbligo di individuazione del preposto, riferito sia all’art. 18 comma 1 lettera b-bis sia all’art. 26 comma 8-bis.

Art. 56

Infine, anche per il preposto cambiano le sanzioni:

la sanzione del comma 1 lettera a), già prevista per la violazione dell’art. 19 lettera a) rimane confermata, ma ora si applica anche alla violazione della lettera f-bis.

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Provando a sistematizzare le modifiche, si osserva che il legislatore si è mosso lungo tre direttrici di intervento, poste a diversi livelli.

Una prima direttrice di intervento riguarda il livello operativo e mira a dettagliare il contenuto concreto degli obblighi del preposto con il chiaro obiettivo di renderli più effettivi ed anche più efficaci in termini di risultato. Le altre due direttrici di intervento riguardano la struttura del sistema di sicurezza aziendale: la prima interessa la governance del sistema e la definizione dei ruoli aziendali, e consiste in misure finalizzate a garantire un organigramma rispondente alle esigenze della vigilanza; la seconda interessa il livello organizzativo e mira ad assicurare al preposto, nel momento in cui lo si coinvolge maggiormente, le condizioni per poter svolgere il proprio ruolo. 

2. I “nuovi” obblighi del preposto

2.1. La vigilanza sui lavoratori e gli obblighi in caso di “non conformità comportamentali”

La prima parte della nuova lettera a) dell’art. 18 rimane invariata e conferma il primo ed essenziale obbligo del preposto, quello che connota la figura: sovrintendere e vigilare sull’osservanza di obblighi di legge, disposizioni aziendali, uso dei mezzi di protezione e dpi da parte dei singoli lavoratori. 

Invece cambia completamente la seconda parte della nuova lettera a), dove il legislatore stabilisce cosa deve accadere quando il preposto accerta situazioni di inosservanza.

Innanzitutto, questo generale concetto di “inosservanza” viene sostituito dalla nuova nozione di “non conformità comportamentale”: formula linguistica che porta direttamente al tema della condotta del lavoratore, da cui il legislatore manifestamente pretende e si attende la “conformità comportamentale”.

Le violazioni riconducibili alla condotta personale del lavoratore vengono in questo modo distinte, e sottoposte ad un diverso regime di vigilanza, rispetto alle violazioni che hanno invece natura tecnico-organizzativa che sono collocate in un’altra e diversa lettera dell’art. 19: la lettera f-bis). 

La seconda novità della revisionata lettera a) è che in reazione alla “non conformità comportamentale” il legislatore disegna in capo al preposto una sequenza ben precisa e soprattutto vincolata di obblighi specificamente individuati, cadenzati secondo un predeterminato flusso procedimentale. 

Nel previgente sistema, l’obbligo di sovrintendere e vigilare non prevedeva una esplicita azione del preposto verso il lavoratore, ma un obbligo in qualche modo sottinteso: il fatto che l’obbligo di informare i superiori sorgesse in caso di “persistenza” della inosservanza lasciava presupporre un intervento del preposto rimasto senza successo, ma la norma non dettava un obbligo esplicito, e soprattutto non dettava in alcun modo il contenuto dell’azione che il preposto doveva porre in essere. 

Ora invece è prescritto un flusso di azioni ben preciso: 1) fornire al lavoratore le indicazioni di sicurezza per modificare il comportamento non conforme; 2) se non basta, interrompere l’attività e 3) informare i superiori diretti. 

Il preposto ha dunque l’esplicito obbligo di porre in essere almeno tre azioni correttive, scandite in due diverse fasi: una azione nella prima fase, due azioni nella seconda fase. In questo intervento correttivo si concretizzano a un tempo il “potere gerarchico” che sostanzia la definizione di preposto e la sua funzione di “garanzia”.

La prima azione correttiva è una azione diretta di informazione sulla persona del lavoratore, con la specifica finalità di modificare il comportamento non conforme. 

La seconda e la terza azione correttiva vanno compiute se la prima non raggiunge il risultato, e sono da compiere cumulativamente e non in alternativa: l’una è rivolta anch’essa direttamente al lavoratore e consiste nell’interrompere la sua attività; l’altra ha una finalità correttiva nei confronti del sistema, e consiste nell’informare i superiori. 

Tutte le azioni correttive sono dovute e non discrezionali (con l’annotazione che anche la lettera f-bis prevede l’interruzione dell’attività, ma solo “se necessario”). 

Ciò che appare interessante è che, da un assetto di obblighi così disegnato, sembra potersi desumere un momento in cui la condotta non corretta del lavoratore si trasforma da non conformità comportamentale del singolo in “prassi non corretta”: è il momento in cui il preposto, accertata la non conformità, non dà al lavoratore le informazioni necessarie ovvero, persistendo la non conformità nonostante l’informazione data, egli non interrompe quell’attività e non informa i superiori. La tolleranza o comunque il non intervento del preposto rispetto ad una condotta rilevata, attribuiscono a quella condotta individuale errata del lavoratore, che di per sé potrebbe essere occasionale e non conosciuta, la natura di “prassi aziendale”, intesa come violazione che esce dalla sfera soggettiva del suo autore per entrare in una sfera oggettiva, che è quella del sistema aziendale; entra in gioco infatti quantomeno la sfera di imputabilità anche di altro soggetto, che di quella condotta illecita non è l’autore, ma che rispetto ad essa ha obblighi di garanzia, cioè appunto il preposto.

L’ulteriore adempimento imposto dalla norma, cioè l’informazione ai superiori, a sua volta concorre a rafforzare la natura  “aziendale” della prassi scorretta, in un crescendo che conduce, man mano che la conoscenza della non conformità e della sua mancata correzione si diffonde verso l’apice dell’organizzazione, fino al datore di lavoro.

Vero è che la scelta legislativa, di scomporre esplicitamente gli obblighi in diversi livelli di intervento, enfatizza la diversità delle posizioni di garanzia, contraddistinte da livelli diversi di “immediatezza” rispetto alla condotta non conforme e quindi da livelli diversi di potere impeditivo. E’ questo uno degli aspetti della riforma che dovrebbe produrre il maggiore impatto sul regime delle responsabilità, rispetto ad una situazione attuale in cui l’esistenza di comportamenti scorretti viene molto spesso automaticamente imputata al datore di lavoro come omessa vigilanza senza dare attenzione all’esistenza dei livelli gerarchici intermedi. In sostanza, la scansione degli obblighi valorizza anche a livello normativo il tema della “contiguità” della posizione di garanzia rispetto al luogo in cui la violazione è commessa e/o rispetto all’attività lavorativa interessata dalla violazione: tema che è stato oggetto di alcune sentenze della Suprema Corte (Cass. Pen., sez. IV, n. 12137/2021; n. 20833/2019; n. 13838/2015; per il profilo temporale cfr. Cass. Pen., sez. IV, n. 1096/2021) con cui è stata manifestata, da parte della giurisprudenza più attenta, l’esigenza di evitare responsabilità legate alla mera titolarità della posizione di garanzia, anziché ad una effettiva condotta illecita colpevole.

2.2. La vigilanza sui lavoratori e gli obblighi in caso di “deficienze di mezzi, attrezzature, o comunque condizioni di pericolo”

Un diverso aspetto della vigilanza è disciplinato dalla nuova lettera f-bis), e riguarda il caso in cui il preposto rileva deficienze di mezzi, attrezzature, o comunque condizioni di pericolo.

Si tratta di profili di contenuto tecnico-organizzativo, non legati alla condotta non conforme del singolo lavoratore rispetto alle regole ricevute.

In questi casi, l’obbligo del preposto è di interrompere “temporaneamente” l’attività, ma solo “se necessario”, e segnalare le condizioni di pericolo al datore di lavoro e al dirigente.

Qui viene interrotta non l’attività “del lavoratore”, cioè solo del singolo lavoratore che non segue le regole di comportamento insegnate (come nella lettera a): qui si interrompe l’attività in generale, con il che si deve intendere non l’intera attività aziendale, ma quella attività che è interessata dalla deficienza dei mezzi e delle attrezzature, o quella attività che viene svolta in una condizione di pericolo. Potrebbe trattarsi anche qui di una attività di un singolo lavoratore, che ad esempio sta usando una attrezzatura non sicura; ma potrebbe anche trattarsi di una intera linea di lavorazione, e certo potrebbe essere perfino una interruzione totale almeno nei casi più eclatanti.

Il flusso delle azioni del preposto è il seguente: 1) vigilare se ci sono deficienze di mezzi, attrezzature, condizioni di pericolo; 2) se ci sono, valutare se è necessario interrompere l’attività; 3) se sì, interrompere l’attività;  4) in ogni caso, segnalare al datore di lavoro e al dirigente.

La nuova lettera f-bis) è molto simile nei contenuti a quelli di altri obblighi già esistenti e confermati, in particolare quelli della lettera f) e della lettera e), con i quali sarebbe stato probabilmente auspicabile un maggiore coordinamento.

La lettera f), in particolare, è in buona parte sovrapponibile alla nuova lettera f-bis) anche testualmente. La differenza è che la lettera f-bis) riguarda le carenze “rilevate durante la vigilanza” e non (come nella lettera f) “della quale venga a conoscenza sulla base della formazione ricevuta”. Il legislatore sembra voler enfatizzare l’importanza della funzione di vigilanza e la sua obbligatorietà, rispetto ad una più generica “conoscenza”; comunque la nuova formula sembra comprendere la vecchia, perché rilevare le carenze include ovviamente l’esserne venuti a conoscenza e presuppone la formazione ricevuta. La questione che si pone è piuttosto se la norma vada intesa nel senso che il preposto deve rilevare queste violazioni, o invece nel senso che il preposto deve agire solo se la deficienza sia stata rilevata. Nella prima ipotesi, in caso di deficienza accertata in sede ispettiva, il preposto risponde della violazione della lettera f-bis per il solo fatto che la deficienza c’è. Nella seconda ipotesi, non c’è violazione se il preposto non se ne è accorto; c’è invece violazione se il preposto non è intervenuto pur essendone consapevole; occorre cioè dimostrare che il preposto aveva rilevato la deficienza ma era rimasto inerte. E’ evidente, ai fini di una sanzione ma soprattutto in caso di infortunio, il diverso impatto che può avere, sulla responsabilità del preposto, l’una o l’altra interpretazione in presenza di una carenza tecnica che l’ispettore ex post ritenga rilevabile (ma che magari non lo era in maniera eclatante ex ante).

Un coordinamento migliore era probabilmente auspicabile anche rispetto all’obbligo della lettera e), che in caso di pericolo “grave ed immediato” imponeva al preposto di “astenersi” dal far “riprendere” l’attività, ma non attribuiva al preposto un esplicito potere/dovere di interruzione. 

In ogni caso, ciò che rileva è che ora, in caso di deficienza tecnica rilevata, la lettera f-bis) pone in capo al preposto un dovere esplicito di valutare la necessità o meno di una interruzione anche solo temporanea, e non più di limitarsi a segnalare la carenza ai superiori. 

L’interruzione dell’attività non è automatica, perchè occorre una valutazione del preposto sulla “necessità” della interruzione. Ma cosa significa “se necessario”? 

E’ ragionevole ritenere che vada applicato anche qui il criterio del “pericolo grave ed immediato”, che attraversa tutto l’art. 19 e che in ogni caso costituisce principio ispiratore nella contrapposizione degli interessi in gioco. E’ peraltro evidente l’impatto che la decisione di interrompere o di proseguire l’attività possono avere sul preposto, in caso di incidente futuro causato da una condizione di pericolo da lui rilevata, ma non ritenuta sufficiente a giustificare una interruzione dell’attività.

L’interruzione in ogni caso non esaurisce gli obblighi del preposto, che ha comunque un dovere di segnalazione ai superiori: attività quest’ultima che in una prospettiva di sistema assume ancora una volta una rilevanza centrale, al fine di stabilire se la disfunzione sia qualificabile come “aziendale” e imputabile ai livelli apicali, o sia invece una disfunzione “operativa” da imputare ai livelli esecutivi.

Peraltro, poiché nella lettera f-bis) non si tratta di comportamenti dei lavoratori ma di circostanze oggettive, il coinvolgimento dei ruoli apicali appare in questa fattispecie, rispetto alla lettera a), più agevole da dimostrare perché si sta discutendo di aspetti strutturali o comunque legati alla dotazione o alla organizzazione aziendale; anzi, proprio la natura del presupposto pone l’esigenza di ampliare l’attenzione a tutti i soggetti del sistema di sicurezza aziendale che della deficienza tecnica o organizzativa avrebbero potuto/dovuto accorgersi, ivi compreso il Servizio di Prevenzione e Protezione. 

Naturalmente, per tale Servizio e per il RSPP diventa fondamentale la questione, se il Servizio sia stato portato a conoscenza della circostanza (o dal preposto direttamente, o dai superiori da quello informati); così come è fondamentale distinguere le fattispecie in cui la deficienza o la condizione di pericolo siano riconducibili a carenze della valutazione del rischio, da quelle fatte oggetto di adeguata valutazione del rischio (e magari addirittura di segnalazione specifica da parte del RSPP) ma non debitamente gestite dall’organizzazione.

3. La nuova governance aziendale. L’obbligo di individuazione del preposto o dei preposti

3.1 L’obbligo formale di individuazione

La riforma pone a carico del datore di lavoro un obbligo specifico ed esplicito di individuazione del preposto o dei preposti per l’effettuazione dell’attività di vigilanza.

Per cogliere il significato di questo obbligo, non si può non considerare che datore di lavoro/dirigente/preposto costituiscono da sempre le posizioni di garanzia tipiche del sistema di sicurezza disegnato dal legislatore nazionale (cfr. anche l’art. 299  del Decreto 81/08) e che la definizione di preposto – inteso come soggetto contraddistinto da una posizione di sovraordinazione gerarchica e funzionale che soddisfa i requisiti di cui all’art. 2, comma 1, lettera f) del Decreto 81/08 e come tale è titolare di un potere/dovere di garanzia a titolo originario – è rimasta assolutamente identica con la riforma.

La nuova disciplina non mette dunque in discussione il fatto che il preposto è, all’interno dell’organizzazione, un soggetto che esercita un potere gerarchico e funzionale su altri lavoratori: né mette in discussione il principio secondo cui l’obbligo di vigilanza è la conseguenza di quei poteri, senza i quali non potrebbe esservi posizione di garanzia. 

D’altro canto, la posizione di garanzia, come recita appunto l’art. 299 del Decreto 81/08 oltre che da sempre la giurisprudenza, prescinde da una “investitura formale” e manca a volte di una esplicitazione all’esterno. 

E’ in questa prospettiva che va letto, a nostro avviso, il riferimento del legislatore ad una  individuazione, da intendere come azione con la quale si mette in evidenza, si porta all’attenzione, si formalizza, ciò che è già presente ma potrebbe non essere esplicito: azione ben diversa dalla nomina, cioè dalla attribuzione ad un soggetto di una qualifica e di un ruolo che senza l’atto formale quel soggetto non avrebbe.

Non appare possibile, a nostro avviso, ritenere che la riforma abbia voluto individuare una figura del tutto nuova di preposto, inteso non come soggetto titolare di un ruolo sovraordinato agli altri lavoratori con poteri gerarchici e funzionali nell’esercizio dell’attività lavorativa, bensì come soggetto affidatario di una attività di vigilanza intesa come vera e propria mansione lavorativa da attribuire con un atto dedicato. Non si tratterebbe di un preposto, ma di un vigilante o controllore che dir si voglia: nozione evidentemente diversa, e che nei contenuti sia letterali che sistematici della riforma non è dato rinvenire. 

La novità della riforma sta invece nel fatto che, introducendo l’obbligo di individuazione, si sancisce il principio per cui in ogni organizzazione la presenza del preposto dovrà d’ora in poi essere anche formalizzata e resa nota, attraverso un atto/provvedimento/documento formale da cui si evinca quali sono in azienda i preposti. 

Il che significa – conseguenza non banale – che la mancanza di un tale atto/provvedimento/documento formale è sufficiente per applicare nei confronti del contravventore la sanzione amministrativa di euro 1.500,00 mediante prescrizione ai sensi del Decreto n. 758/1994 (un quarto del massimo dell’ammenda di euro 6.000,00 prevista dal nuovo art. 55, comma 5 lettera d).

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“Individuare” il preposto, peraltro, non significa necessariamente redigere un atto con il quale un soggetto, individuante, comunica ad un altro soggetto, individuato, che quest’ultimo è un preposto; non significa neppure redigere una lista intitolata “Individuazione preposti”.

Certo questi possono essere alcuni dei modi per assolvere l’obbligo; ma non sono certo gli unici, né sarebbe condivisibile una interpretazione formalistica che pretendesse di trovare un documento di questo tipo, magari disinteressandosi della effettiva organizzazione aziendale e della effettiva esistenza di preposti individuati.

“Individuare” significa piuttosto porre in essere una azione, il cui risultato finale sia quello di esplicitare che un lavoratore è, in quella organizzazione, un preposto: significa accompagnare un nome ad una posizione. 

Non si deve dunque ricercare un “atto di individuazione” inteso come atto individuale; può esserci ma non è essenziale; l’obbligo deve intendersi adempiuto, tutte le volte che nel sistema aziendale vi sono documenti o atti di qualsiasi natura aventi rilevanza esterna, dai quali si possa evincere con certezza che taluni soggetti ricoprono in azienda un ruolo di preposto. 

Può trattarsi dell’organigramma, del funzionigramma, del mansionario, delle job descriptions; può trattarsi del Sistema di Gestione della Sicurezza o del Modello Organizzativo; può trattarsi perfino dell’elenco degli iscritti al corso di formazione specifica per preposti. Proprio l’adempimento dell’obbligo formativo in favore dei preposti, già esistente nell’ordinamento da anni, costituisce lo strumento attraverso il quale l’individuazione di essi è già stata compiuta da tutte le organizzazioni che quell’obbligo hanno assolto; sicchè la necessità di una individuazione si pone semmai nei confronti delle organizzazioni che i preposti ad oggi non li hanno ancora formati. 

Ciò che conta è che l’informazione sia esplicitata.

Non è neppure necessario, che l’atto di individuazione o il documento aziendale affidino formalmente al preposto l’incarico di svolgere l’attività di vigilanza: l’obbligo di vigilanza continua a rimanere, per il preposto, un obbligo connaturato alla funzione, obbligo che deriva a titolo originario dal fatto di essere preposto e non dal conferimento di una delega apposita. 

Il fatto che il legislatore parli di “individuazione” e non di “nomina” è un indice inequivoco in questo senso; e ciò implica un’altra considerazione assolutamente fondamentale, e cioè che la individuazione del preposto non richiede una accettazione del preposto individuato, né consente un rifiuto o una rinuncia.

L’individuazione dei preposti, in ultima analisi, non è altro che una fotografia dell’organizzazione così come essa è ed opera; ha una finalità dichiarativa ed informativa, non una finalità costitutiva.

Perché allora, si potrebbe obiettare, il legislatore ha prescritto uno specifico obbligo di individuazione del preposto, se in realtà questo non significa “creare” un preposto là dove non esisteva?

La risposta sta nel fatto che l’individuazione, ben lungi dall’essere fine a se stessa, è momento propedeutico e indispensabile per l’assolvimento degli obblighi ulteriori previsti dalla riforma, e alla fine per l’esistenza stessa di un sistema di vigilanza.

Senza l’individuazione, il datore di lavoro non può procedere alla formazione specifica del preposto né alla eventuale erogazione di un emolumento apposito; ma l’individuazione agevola anche l’esercizio delle azioni correttive perché concorre alla chiarezza dei ruoli nei reparti. Più in generale, attraverso l’opera di individuazione l’organizzazione è costretta a fare i conti con la propria stessa struttura, a valutarne l’adeguatezza o le carenze. 

Nel momento in cui il legislatore ha inteso rafforzare la vigilanza, ed ha deciso che per farlo era necessario rafforzare il ruolo del preposto, ha fatto in modo che nelle organizzazioni questo ruolo uscisse dall’ombra e dall’incertezza.

3.2 L’individuazione del preposto “o dei preposti”. 

La norma prevede l’obbligo di individuare il preposto o “i preposti”.

Non viene specificato il numero e neppure vengono posti limiti minimi o soglie massime; ciò è da condividere, perché quanti sono i preposti all’interno di una organizzazione dipende dalla dimensione, composizione e struttura di ogni organizzazione.

Non appare possibile, tanto considerato, che venga contestata la violazione dell’obbligo sotto il profilo – ad esempio – di un numero di preposti non adeguato alle dimensioni aziendali, o alla distribuzione delle funzioni; si tratterebbe di una inammissibile interferenza dell’organo ispettivo – e/o del Giudice – nell’autonomia organizzativa e imprenditoriale del datore di lavoro.

Ciò su cui l’organizzazione deve, piuttosto, porre l’attenzione è la adeguatezza del numero dei preposti rispetto alle finalità sostanziali perseguite dalla norma, che sono quelle di assicurare (come recita appunto la lettera b-bis) “l’effettuazione dell’attività di vigilanza”; e come si è visto, ora l’attività di vigilanza si concretizza nell’assolvimento degli obblighi e nell’esercizio delle azioni che il nuovo art. 19 scandisce in  maniera molto puntuale e che comportano, anche dal punto di vista formale e della registrazione degli adempimenti (anche solo a fini di prova) rinnovata attenzione.

3.3 Le organizzazioni senza preposto: la vigilanza del datore di lavoro e i lavori in solitudine.

La previsione di un esplicito obbligo di individuazione “del preposto” rinnova, sotto nuova prospettiva, sia la tematica della vigilanza espletata dal datore di lavoro in assenza di preposti, sia la tematica del lavoratore in solitudine.

Ci si deve domandare infatti se la nuova lettera b-bis) dell’art. 18 possa essere intesa, nel senso di imporre al datore di lavoro di individuare comunque almeno un preposto, sempre ed in ogni organizzazione.

Ci sono moltissime organizzazioni di modesta dimensione, in cui la vigilanza è svolta direttamente dal datore di lavoro in quanto presente sul luogo di lavoro, e nelle quali pertanto un preposto non è presente. Esse rappresentano notoriamente la maggioranza o comunque una percentuale elevatissima delle organizzazioni esistenti sul territorio nazionale. 

La norma a nostro avviso non può essere letta nel senso di imporre la necessaria presenza di almeno un preposto in ogni organizzazione.

Non ci sono elementi letterali per sostenere questa conclusione; soprattutto non ci sono elementi sostanziali, perché l’art. 18 interviene su un profilo di natura organizzativa volto a rendere formale ciò che è nella sostanza delle aziende, ma non interviene –  né potrebbe – a modificare quella sostanza; del resto, la definizione di preposto di cui alla lettera f) dell’art. 2 del Decreto 81/08 rimane immutata, ed è una nozione basata su un principio di effettività che riconduce direttamente ed esclusivamente alla struttura produttiva delle organizzazioni.

In sostanza, la norma non può essere letta nel senso di imporre al datore di lavoro di attribuire ad almeno uno dei propri lavoratori un ruolo di sovraordinazione sugli altri; non può essere intesa nel senso di imporgli di creare un capo-reparto o un capo-squadra là dove non c’è e dove il datore di lavoro non ha mai ritenuto necessario che ci sia.

Si deve ritenere pertanto che il datore di lavoro possa continuare a svolgere “in proprio” la funzione di vigilanza, in attuazione dell’obbligo (non modificato) di cui all’art. 18; se un lavoratore sovraordinato agli altri non c’è, potrà continuare a non esserci.

Naturalmente, vale anche per queste micro-organizzazioni l’obbligo di individuazione formale del preposto, là dove questa figura esista nei fatti; inoltre, e soprattutto, è necessario per queste micro-organizzazioni (per il datore di lavoro) attuare l’obbligo di vigilanza con accresciuto rigore, conformemente alla stretta imposta dal legislatore alla disciplina.

Coerenza di sistema impone, infatti, di ritenere che il datore di lavoro che esercita in proprio la vigilanza sia chiamato ad assicurare un livello di controllo almeno pari a quello che il preposto è tenuto a svolgere ai sensi delle rinnovate lettere a) e f-bis) dell’art. 19; in sostanza, il datore di lavoro dovrà assicurare personalmente l’assolvimento di tutte le azioni di vigilanza, di intervento e di correzione ivi così dettagliatamente elencate.

Un ultimo e diverso profilo riguarda invece i lavoratori in solitudine, rispetto ai quali la tematica si ripropone tutto sommato con le medesime caratteristiche che già aveva prima della riforma, posto che le norme non possono imporre un determinato assetto organizzativo e non appare possibile  leggere la riforma come l’introduzione di un divieto di lavoro in solitudine; anche in questo caso, nondimeno, il presupposto della “solitudine” da un lato ed i requisiti del lavoratore solitario dall’altro andranno analizzati con accresciuto rigore dal punto di vista organizzativo, coerentemente con l’accresciuto rigore che il legislatore ha imposto alla disciplina della vigilanza.

4. Il preposto come soggetto “qualificato”. Le condizioni per l’esercizio della funzione

In una riforma (quella degli articoli 18 e 19) finalizzata a garantire la “effettività della vigilanza”, il legislatore ha ritenuto necessario puntare sul preposto come snodo fondamentale del sistema: gli obblighi sono stati resi più espliciti (e quindi meno giustificabile la loro omissione) in termini di presupposto e di contenuto delle azioni da porre in essere; le azioni del preposto sono più impattanti per l’organizzazione, da un lato incidendo sull’operatività immediata, dall’altro sollecitando i livelli superiori in maniera più formalizzata e più incisiva; le responsabilità non sono più le stesse di prima.

Questo rinnovato ruolo del preposto ha reso necessario riconsiderare la figura all’interno del sistema aziendale, ed in questa prospettiva si collocano le ulteriori modifiche introdotte dalla legge n. 215/2021, che incidono su quelli che possiamo definire come i requisiti caratterizzanti di una figura “qualificata” rispondente al nome di preposto.

Il primo di questi profili riguarda la formazione del preposto.

L’assolvimento dei rinnovati obblighi presuppone un adeguato patrimonio di competenze e di conoscenza sia delle regole di sicurezza in generale, sia dei processi aziendali, sia delle peculiarità che contraddistinguono figura, attività ed obblighi del preposto. 

A questo scopo viene rafforzato un obbligo già esistente, e cioè l’obbligo di formazione del preposto: il comma 7-ter dell’art. 37 ribadisce i principi noti di adeguatezza e specificità della formazione, nonché l’obbligo dell’aggiornamento periodico, ma impone la modalità della formazione “interamente” in presenza e la cadenza almeno biennale e comunque in ogni circostanza di evoluzione dei rischi o insorgenza di nuovi rischi; al nuovo obbligo corrisponde una nuova specifica sanzione. 

La ratio della norma è evidente: la vigilanza dell’art 19 presuppone la capacità del preposto di individuare le non conformità comportamentali così come le deficienze tecniche e le condizioni di pericolo, di dare al lavoratore informazione diretta delle giuste manovre, di valutare la necessità o meno di interruzione di una attività, di trasmettere ai superiori le segnalazioni necessarie.

Tutto questo può aversi soltanto con una adeguata formazione, che sarà formazione sulle macchine e attrezzature specificamente presenti ed utilizzate là dove opera quel preposto, sulle procedure lavorative ivi attuate; ma anche formazione sugli obblighi e sulle responsabilità; e ancora, formazione sui comportamenti e sugli insegnamenti da dare. 

Il legislatore ha scelto di farlo tramite una formazione per il preposto “diversa” dalle altri formazioni, quanto a modalità e tempistiche. A prescindere da ogni criticità di merito (ad esempio, le modalità di calcolo del termine “biennale”), non si può non vedere in questa scelta quantomeno una perplessità del legislatore sulla reale efficacia della formazione così come fino ad oggi concepita. Considerata la portata dell’argomento, la sola cosa che si può fare in queste brevi note è rilevare come, ancora una volta, affrontare il tema della vigilanza, e cioè della sicurezza praticata in concreto, renda inevitabile una riflessione generale sul fondamentale tema della formazione.

Il secondo intervento legislativo di questo contesto è quello economico, e consiste nel prevedere la possibilità di riconoscere al preposto, tramite lo strumento della contrattazione collettiva, un emolumento per lo svolgimento delle attività di vigilanza di cui all’art. 19.

Il punto appare delicato, dal punto di vista della configurazione giuridica della posizione di garanzia.

Come si è visto, esigenze di effettività della vigilanza hanno indotto il legislatore ad imporre una formale individuazione dei preposti.

Ma, come pure si è visto, l’individuazione non consiste in una nomina, né nel conferimento di una delega e/o di un potere derivato, bensì nella formalizzazione di un ruolo che deriva al preposto in ragione della posizione di supremazia concretamente rivestita nell’organizzazione: “il preposto, come il datore di lavoro e il dirigente, è individuato direttamente dalla legge e dalla giurisprudenza come soggetto cui competono poteri originari e specifici” e risponde “a titolo diretto e personale” (cfr. Cass. Pen., sez. IV, n. 25836/2019).

Da tanto discende che il riconoscimento di un emolumento economico al preposto “per lo svolgimento dell’attività di vigilanza” può essere concepito soltanto come trattamento economico aggiuntivo (laddove la contrattazione collettiva lo prevederà) che consegue automaticamente alla circostanza oggettiva di copertura del ruolo di preposto; in sostanza, la nuova lettera b-bis dell’art. 18 è un invito alle parti sociali a valorizzare economicamente il ruolo e la funzione del preposto come categoria di lavoratore, e non la previsione di un compenso da riconoscere come soggetto individuale.

Ciò che si vuol dire è che l’effettuazione dell’attività di vigilanza non può essere considerata, per il solo fatto che è ora suscettibile di un emolumento economico dedicato, come una mansione aggiuntiva che il lavoratore può accettare o rifiutare, accettando quindi o rifiutando la corrispondente quota di retribuzione. 

Come è da sempre nel sistema normativo nazionale in materia di sicurezza sul lavoro, la funzione di preposto non è oggetto di negoziazione e l’attività di vigilanza non è oggetto di accettazione: il preposto è tale quando riveste un ruolo aziendale che lo rende un soggetto sovraordinato ad altri (ed ora la riforma impone di individuarlo espressamente), e come preposto ha l’obbligo normativo ed originario di eseguire la vigilanza (ed ora la riforma consente alle parti sociali di riconoscergli un emolumento).

Ciò che ora accade è che il fatto di essere destinatario di un obbligo normativo dà diritto al preposto (se le parti sociali lo decideranno) di avere una somma di denaro, che diventa una sorta di “premio” per il fatto di avere quell’obbligo.

Il legislatore ha stretto le maglie nei confronti del preposto; ma trattandosi di un lavoratore e non di un soggetto apicale, ha evidentemente ritenuto opportuno accompagnare questa stretta con una contropartita economica.

Si tratta, in sostanza, di una posizione di garanzia che diventa in qualche misura “a pagamento”; ma proprio perché non è un vero e proprio corrispettivo, la decisione non solo sul quanto, ma anche sul se erogare l’emolumento è stata rimessa alle parti sociali.

Ovviamente, non sarà possibile per il datore di lavoro assoggettato al contratto collettivo non corrispondere l’emolumento a tutti i propri preposti; per contro il preposto che non si vedesse riconosciuto l’emolumento sancito dalla contrattazione collettiva, avrà naturalmente diritto di agire per ottenerne in via coattiva il pagamento. Appare da escludere, però, la possibilità per il preposto di omettere la vigilanza in caso di mancata erogazione: questo perché l’obbligo, come detto, è e rimane obbligo normativo a titolo originario.

Infine, la nuova condizione che la riforma riconosce al preposto è un diritto di protezione contro i pregiudizi che potrebbe subire a causa dello svolgimento della propria attività.

E’ una norma che testualmente riecheggia l’art. 31 comma 2 del Decreto 81/08 a tutela del Responsabile e degli Addetti al Servizio di Prevenzione e Protezione e che appare volta a prevenire l’adozione, da parte del datore di lavoro e del dirigente (ma in generale da parte dell’intera organizzazione, compresi i lavoratori vigilati) di condotte volte a dissuadere il preposto dal compimento dei suoi obblighi, o a punirlo per averli adempiuti. Va osservato peraltro che il legislatore non ha usato in questa sede le formule di tutela particolarmente rigorose utilizzate, ad esempio, nella disciplina di protezione del whistleblower di cui all’art. 6 del Decreto 231/2001.

Di certo il legislatore mostra di voler fare del preposto, in maniera definitiva e inequivoca, uno strumento di controllo dell’organizzazione dall’interno, e di lotta alle prassi aziendali scorrette; è una posizione di antitesi rispetto a quella del datore di lavoro, o del dirigente, o financo dei lavoratori che volessero praticare prassi scorrette per comodità o per altri fini. 

Il legislatore ci dice che la vigilanza è una parte fondamentale del sistema, e ci dice che il preposto è il cardine dell’azione di vigilanza; per questo motivo l’organizzazione deve fare quanto necessario – e quanto ora espressamente imposto dalla norma – per metterlo in condizione di lavorare al suo meglio.

5. Esiste ancora il preposto “di fatto”?

Una considerazione finale riguarda le conseguenze profonde della riforma.

Il preposto è sempre stato considerato, dalla tradizionale lettura giurisprudenziale, una figura “anche di fatto”: il preposto è tale in ragione dei poteri che esercita, indipendentemente da una investitura formale, e in questo senso è stato scritto l’art. 299 del Decreto 81/08 che ha recepito decenni di sentenze in questo senso.

Si può anzi dire che il preposto è la figura paradigmatica del principio di effettività, incarnando nella maniera più esemplare la veste della posizione di garanzia che è tale per i poteri che esercita, indipendentemente da una investitura formale.

Si diventa preposti nel momento in cui si viene assegnati al ruolo di caposquadra, capocantiere, responsabile di reparto, e così via: oppure perfino quando, senza assumere formalmente alcun ruolo sovraordinato, la sovraordinazione viene comunque esercitata nei fatti.

Questa natura “fattuale” in realtà ha cominciato ad affievolirsi con l’introduzione dell’obbligo di formazione del preposto di cui all’art. 37 del Decreto 81: formare un preposto presuppone di averlo riconosciuto come tale, e pertanto l’individuazione del preposto è divenuta (per quanto indirettamente) una necessità, nel momento in cui si è dovuto effettuarne la formazione. 

Però la situazione era sempre rimasta per così dire a metà del guado; tanto che non sono mancate le sentenza di condanna del preposto di fatto pur non sottoposto alla dovuta formazione, già solo per avere intrapreso l’attività pur non avendo le conoscenze necessarie (cfr. Cass. Pen., sez. IV, n. 18090/2017).

Ora la riforma della figura del preposto spinge ulteriormente nel senso della sua qualificazione e della sua manifestazione formale; il che rende inevitabile domandarsi, se possa ancora esistere il preposto come posizione di garanzia “di fatto”.

Se il datore di lavoro ha un obbligo esplicito di individuare i preposti, può essere considerato preposto (e quindi destinatario dei relativi obblighi) un soggetto che non è stato individuato come tale?

Se il preposto deve ricevere una adeguata formazione, addirittura speciale rispetto alle altre, può qualificarsi preposto un soggetto che non ne è stato destinatario (e che non ha dunque i requisiti che la norma ritiene necessari per svolgere la funzione)?

A noi pare che, se il preposto viene individuato come tale, ma poi il datore di lavoro non assolve agli obblighi conseguenti, non si tratti di un preposto di fatto: si tratta di un preposto individuato, rispetto al quale si pone la questione di come valutare gli obblighi previsti ex lege, a fronte delle omissioni datoriali. E questo sarà, dopo questa riforma, un tema tutto da esplorare.

Ma il preposto neppure individuato? Dobbiamo escludere che sia un preposto? Dobbiamo pensare che il legislatore abbia disegnato un nuovo sistema di sicurezza aziendale, in cui in assenza di individuazione, chi ha posizioni sovraordinate sugli altri lavoratori sarebbe ciononostante esonerato da obblighi di garanzia?

Come sopra si è già ricordato, questa conclusione non appare consentita alla luce della riforma, che non ha modificato la definizione di preposto e la sua natura di soggetto garante in quanto titolare di poteri gerarchici; la stessa individuazione non costituisce un conferimento di poteri e di mansioni, ma il riconoscimento di una realtà esistente. D’altro canto, se il preposto non viene individuato come tale dal datore di lavoro, non per questo viene meno la sua posizione sovraordinata sugli altri lavoratori, che comunque continueranno a riconoscerlo come tale. 

Tuttavia, è indubbio che in un sistema dove i preposti devono essere individuati, l’omessa individuazione (l’omessa “investitura formale”) rischia di mettere in crisi la logica dell’effettività. 

6. Politica aziendale e responsabilità 231 dell’ente

E’ certo che, con questa riforma della vigilanza, l’attenzione del datore di lavoro e dell’intera organizzazione agli aspetti di governance deve aumentare ulteriormente. 

Nella nuova prospettiva data dal legislatore, l’obbligo di individuazione dei preposti appare come un momento fondamentale (sia nella forma, sia nella sostanza) nella configurazione dell’assetto di sicurezza di una organizzazione.

Certo, sul piano organizzativo gli obblighi di formazione e di tutela da ritorsioni del preposto sono centrali perché funzionali ad un efficace espletamento dei suoi obblighi, e l’emolumento economico è un incentivo e un riconoscimento all’importanza del ruolo; ma in termini strategici, è l’obbligo di individuazione che si configura come il vero perno della “nuova” vigilanza disegnata dal legislatore attorno alla figura del preposto.

La mancata individuazione dei preposti, e la carenza di vigilanza che ne deriva, costituiscono espressione di una inadeguatezza dell’assetto organizzativo; e questa è ovviamente imputabile totalmente ed esclusivamente ai soggetti apicali, datore di lavoro e dirigenti.

Per converso, l’adempimento degli obblighi di individuazione/formazione, accompagnato dalle misure economiche e dalla assenza di comportamenti ritorsivi, costituiscono gli elementi di un sistema aziendale virtuoso in cui la funzione di vigilanza è assicurata in maniera efficace attraverso l’operato del  preposto in quanto “qualificato” soggetto di garanzia.

Letta in questi termini, la riforma degli articoli 18 e 19 si mostra come un intervento che punta al perseguimento di assetti organizzativi adeguati in ogni realtà lavorativa, secondo una logica molto vicina a quella di un sistema di gestione.

Alla fine, l’attenzione data (o non data) alla figura dei preposti è destinata a diventare un segno importante della “politica aziendale”, con valenza quindi non soltanto per le persone fisiche che rivestono posizioni di garanzia, ma anche per l’ente e per la sua responsabilità ai sensi del Decreto 231.

Le criticità della valutazione del Rischio Chimico

Le criticità della valutazione del Rischio Chimico sono oggetto di questo seminario in cui l’avv. Scudier affronta il tema del ruolo del Medico Competente nella Valutazione dei Rischi.

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SOSTENIBILITÀ, SICUREZZA SUL LAVORO E PNRR

La sostenibilità è tema entrato ormai a viva forza non soltanto nel dibattito politico e economico, ma anche nella legislazione e nelle regole aziendali. Dei tre parametri ESG della sostenibilità, il pilastro S – Sociale è destinato a influire in maniera rilevante sulla disciplina dei rapporti di lavoro e sulla organizzazione del lavoro in generale.

L’articolo evidenzia come le nuove regole, inserendosi in un contesto legislativo già ispirato ai principi “sociali”, rafforzano la dimensione di tutela della persona presente da tempo nella normativa di sicurezza sul lavoro e ne fanno soprattutto (e finalmente) un motivo di riconoscimento e di premio per le aziende virtuose.

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D.L. n. 127/2021 Cosa devono fare i datori di lavoro 

VENERDI’ 1° OTTOBRE 2021 ore 14.30 – 16.00
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