Ecco perché il Coronavirus non può essere (sempre) infortunio sul lavoro

L’origine professionale del contagio deve essere provata, non presunta. Di responsabilità non si dovrebbe neppure iniziare a discutere, se manca la prova del contagio sul lavoro.

1. L’infezione da Coronavirus come malattia-infortunio

E’ la legge, e non INAIL, ad avere introdotto la qualificazione della infezione da Coronavirus (SARS-CoV-2) come infortunio sul lavoro; ma certo INAIL ci ha messo del suo.

L’art. 42 della legge n. 27/2020 (conversione del D.L. n. 18/2020) è noto: “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato”.

Ciò garantisce al contagiato le prestazioni INAIL  “anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro”.

La norma si basa sulla nozione giuridico-dottrinaria di “malattia-infortunio”, fondata sulla equiparazione della causa virulenta alla causa violenta. Posto che ciò che distingue l’infortunio sul lavoro dalla malattia professionale non è la conseguenza per la persona, bensì la modalità con cui opera l’agente causale (notoriamente l’infortunio si qualifica per la “causa violenta”, la malattia invece per una azione prolungata nel tempo), utilizzando il criterio della causa virulenta da tempo l’ordinamento ha dato tutela alle malattie infettivo-parassitarie attraverso il loro inquadramento assicurativo nella categoria degli infortuni.

Per il contagio da COVID-19, la circolare INAIL n. 13 del 3 aprile 2020 interpretativa dell’art. 42 ha dunque fatto applicazione dell’indirizzo INAIL in materia di malattie infettive e parassitarie di cui alla Circolare INAIL n. 74 del 23 novembre 1995: “la causa virulenta è equiparata a quella violenta”.

Di qui, l’affermazione per cui la infezione da Coronavirus è infortunio; ma naturalmente, per essere infortunio “sul lavoro” e quindi indennizzabile INAIL, deve essere provata la causa di lavoro.

2. Il problema della prova della origine professionale: la presunzione semplice

Qual è il momento contagiante? Come può dimostrarsi che l’infezione è stata contratta per causa di lavoro?

E’ su questo punto, che la Circolare INAIL n. 13 introduce le regole che tanta preoccupazione stanno determinando in tutti coloro i quali operano nei luoghi di lavoro con una posizione di garanzia (il datore di lavoro, ma certo non solo lui).

Ciò che l’art. 42 richiede, in quanto indispensabile per qualificare un infortunio come “sul lavoro”, è che il caso di infezione da Coronavirus  sia “accertato” come contratto “in occasione di lavoro”.

Sulla definizione di occasione di lavoro, la Circolare INAIL n. 13 richiama “tutte le condizioni temporali, topografiche e ambientali in cui l’attività produttiva si svolge e nelle quali è imminente il rischio di danno per il lavoratore, sia che tale danno provenga dallo stesso apparato produttivo e sia che dipenda da situazioni proprie e ineludibili del lavoratore”.

Ma può esservi contagio in occasione di lavoro, se il rischio di contagio costituisce un rischio generico?

Nel sistema di assicurazione degli infortuni sul lavoro di cui al D.P.R. n. 1124/1965 – non dimentichiamoci che l’art. 42 della legge n. 27/2020 si intitola “Disposizioni INAIL” – “rischio generico” è quello che non ha relazione con l’attività lavorativa e professionale ma grava in maniera uguale e indiscriminata su tutti i cittadini, lavoratori e non. Esso non è oggetto di copertura assicurativa INAIL. Quindi, una persona che contrae l’infezione per un contatto avvenuto per la strada o in qualsiasi momento della sua vita privata non ha diritto a tutela, indipendentemente dal fatto che si tratti di un lavoratore (cioè di soggetto rientrante nella categoria dei soggetti tutelati dal Testo Unico INAIL) oppure no.

La persona del lavoratore è tutelata quando l’infezione è contratta per una esposizione ad un “rischio specifico”, se cioè il rischio di contagio ha una relazione causale diretta con l’attività lavorativa esercitata. E’ il principio in forza del quale il camionista o l’autista del bus è tutelato per i rischi della circolazione stradale: per quei lavoratori si tratta di rischi lavorativi a tutti gli effetti.

Una ulteriore specificazione riguarda le ipotesi del “rischio generico aggravato”, cioè i casi in cui un rischio è astrattamente generico, ma è aggravato da particolari fatti o circostanze che lo ricollegano all’attività lavorativa svolta al punto da far ritenere il lavoratore come meritevole di tutela assicurativa.

In situazioni di questo tipo, la giurisprudenza ha elaborato in passato il principio della “Presunzione Semplice d’Origine”: la prova di un contagio di supposta origine professionale, sebbene non dimostrata, può ritenersi presunta in presenza di gravi, precisi e concordanti elementi.

Sviluppato ad esempio per rischi professionali di infezione da Epatiti o AIDS, il principio ha trovato applicazione da parte di INAIL ritenendo l’origine professionale per soggetti esposti per motivi professionali al contatto con sangue e sperma: chirurghi, infermieri addetti a prelievi di sangue, personale addetto a manipolazione di sangue o sperma per accertamenti di laboratorio.

3. Contatti con i malati, contatto con il luogo, contatti con il pubblico/l’utenza: tre diversi casi di presunzione semplice.

Ebbene, nel caso della pandemia, la Circolare 13  afferma che gli operatori sanitari sono “esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus”.

Questo non dovrebbe significare che per tutti gli operatori sanitari contagiati si verte in ipotesi di infortunio; l’Istituto dovrebbe comunque compiere una propria indagine finalizzata a verificare, ad esempio, la compatibilità temporale del periodo di incubazione, il contatto con un soggetto in condizioni tali da trasmettere il contagio, ma anche la esclusione di comportamenti extraprofessionali “a rischio”.

Senonchè, la Circolare INAIL n. 13 prosegue oltre, nella sua applicazione della presunzione semplice:

“A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari”.

L’ambito di applicazione dello strumento presuntivo si allarga di molto.

INAIL di fatto tratta allo stesso  modo, ai fini probatori (anzi, presuntivi) il contatto con i malati o i casi sospetti di Coronavirus (sono i soggetti “a rischio” con i quali vengono a contatto per lavoro gli operatori sanitari) e il contatto con il pubblico/l’utenza (cioè le persone “comuni” con le quali vengono a contatto per lavoro gli addetti alle vendite, front-office, ecc.); INAIL tratta allo stesso modo anche i contatti non con le persone, ma con il luogo in cui le persone infette sono in qualche modo presenti o anche solo transitate, o con “le cose” che ivi si trovano (è il caso del personale non sanitario degli ospedali).

E’ evidente che si pone un problema legato al fondamento scientifico di questa equiparazione, ad esempio in tema di modalità di circolazione e trasmissione del virus, ma non è certo il nostro tema.

Quello che possiamo osservare, sul piano normativo, è invece che  tra il DPCM 11 marzo 2020 e il DPCM 17 maggio 2020 esiste un abisso, in punto di presunzione di contagio da contatto: il divieto quasi assoluto di contatto diretto tra le persone allora introdotto è stato ora di fatto eliminato dal legislatore, sostituito da una regola di segno contrario secondo cui è possibile muoversi liberamente, salve talune circostanze particolari.

E’ ancora possibile affermare in questo mutato contesto – ammesso che lo fosse prima – che il contatto con l’utenza è fattore di rischio, o meglio di “aggravamento del rischio” rispetto al rischio generico di contagio?

Inoltre, quanto contano i comportamenti extraprofessionali, i contatti del lavoratore fuori dell’orario di lavoro, i contatti dei suoi familiari, congiunti, amici, conoscenti, di tutti coloro che possono ora essere liberamente frequentati?

La discussione naturalmente è aperta; ma ci sembra che proprio questo sia un punto fondamentale, e cioè rimuovere la convinzione che la Circolare INAIL  (una circolare anch’essa, alla fine) abbia detto una parola definitiva; a maggior ragione ove si considerino le circostanze assolutamente – quelle sì – emergenziali in cui fu emanata.

4. I lavoratori fuori della presunzione semplice, cioè tutti gli altri.

Cosa accade invece per tutte le altre categorie di lavoratori?

La Circolare INAIL si occupa anche di loro:

“Residuano quei casi, anch’essi meritevoli di tutela, nei quali manca l’indicazione o la prova di specifici episodi contagianti o comunque di indizi “gravi precisi e concordanti” tali da far scattare ai fini dell’accertamento medico-legale la presunzione semplice.  In base alle istruzioni per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, la tutela assicurativa si estende, infatti, anche alle ipotesi in cui l’identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica. Ne discende che, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga, l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale”.

In sostanza, INAIL non afferma che ogni caso di contagio di un lavoratore è infortunio sul lavoro; afferma esattamente il contrario, e cioè che l’infezione diventa tale solo se è dimostrato che è tale.

INAIL afferma che ognuno di questi casi deve essere affrontato singolarmente e fatto oggetto di specifica istruttoria; in altre parole, ogni volta che un lavoratore contrae l’infezione, deve verificarsi: 1) se è noto e/o se viene provato l’episodio che ha determinato il contagio, oppure 2) se ci sono elementi presuntivi legati alla specifica fattispecie oppure 3) se l’accertamento medico-legale conduce ad affermare la natura “lavorativa” del contagio. Se nessuno di questi casi si configura, l’infezione non potrà essere trattata come infortunio sul lavoro; si tratterà di ordinaria malattia.

Tutto secondo i principi, allora?

Dipende da come le tre circostanze vengono intese; dipende se e quanto uso si farà di presunzioni; dipende da come verrà gestita la “’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale”.

Quello che il datore di lavoro può e deve temere, ad esempio, è che si finisca per includere, tra le circostanze “privilegiate”, le eventuali violazioni rilevate nel luogo di lavoro delle regole di contenimento del contagio.

Sarebbe profondamente sbagliato: la violazione della regola cautelare di prevenzione rileva ai fini della colpa, per imputare al datore di lavoro la responsabilità di un contagio;  ma una tale affermazione di responsabilità richiede prima, appunto, la prova che quel contagio è avvenuto in azienda.

Però questa “necessità” di prova non emerge, dall’art. 42; anzi, quello che da esso è derivato è l’obbligo di redigere la denuncia di infortunio da parte del datore di lavoro, per il solo fatto che il contagiato è un lavoratore e solo per questo motivo.

Non si tratta, si badi, di negare la tutela assicurativa ai contagiati in occasione di lavoro; si tratta di interrogarsi sull’uso dello strumento presuntivo.

Quello che appare poco condivisibile, della norma, è che essa sembra ignorare il dato di fondo sul piano scientifico e tecnico, e cioè la mancanza di qualsiasi certezza che consenta di dare un minimo di contenuto concreto alla parola chiave dell’art. 42: infezione “accertata…in occasione di lavoro”.

Si dà per scontato, nella formulazione della norma, che sia infortunio sul lavoro soltanto la infezione “accertata”, e questo è corretto; ma non si è voluto fare i conti con i rischi di una applicazione impropria per ovviare le difficoltà di questo accertamento.

La Circolare n. 13, dal canto suo, verosimilmente nel lodevole intento di dare tutela ai lavoratori più coinvolti nella fase violenta dell’epidemia, ha applicato in maniera lapidaria e perentoria un sistema di presunzioni semplici che probabilmente avrebbe meritato ben altro studio del caso concreto, e che sicuramente oggi richiede una profonda riflessione e probabilmente una rivisitazione.

Insomma, oggi si parla molto di responsabilità e giustamente si critica l’art. 42 per questo: ma prima ancora di discutere il tema della responsabilità civile e penale del datore di lavoro, ci sembra che sia da mettere in discussione la tesi che ne è  presupposto, e cioè la natura stessa del contagio come infortunio.

E’ la premessa che va innanzitutto cambiata; è la deroga all’onere della prova sull’origine professionale, la distorsione che per prima va combattuta.

5. INAIL ha davvero escluso la responsabilità del datore di lavoro?

Gli interventi di questi giorni di INAIL (il comunicato stampa del 15 maggio 2020 che ricorda gli oneri probatori in sede civile e penale per aversi responsabilità del datore di lavoro; l’intervista del Presidente ad un quotidiano) sono senz’altro apprezzabili, nel loro intento di dire una parola di tranquillità; ma forse suscitano proprio l’effetto contrario. Perché se INAIL parla di responsabilità, anche se per metterla in dubbio, vuol dire che già siamo in un contesto di infortunio sul lavoro.

Nulla dice INAIL, invece, per rettificare il tiro sull’utilizzo della presunzione semplice in maniera massiva; né detta direttive precise, rigorose e stringenti sui criteri di accertamento dell’origine professionale.

Se la ragione di questo silenzio è la mancanza di certezze scientifiche sufficienti, è più una preoccupazione che una consolazione.

In realtà, INAIL avrebbe potuto valorizzare, nel dibattito in corso,  ciò che l’art. 42 dispone espressamente, e cioè che gli eventi infortunistici di cui si discute “non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico” dell’azienda. Questa precisazione dovrebbe confermare la natura mutualistica dell’art. 42, e che la scelta del legislatore è stata quella di assicurare tutela ai contagiati ma al tempo stesso di non addebitare le relative conseguenze economiche al datore di lavoro, evidentemente per l’impossibilità di imputare a lui la responsabilità del contagio.

Però nessuna voce si è udita da INAIL in questo senso; anzi ed al contrario, non appare infondato il timore che proprio la necessità di recuperare gli oneri di questa tutela estesa possa un domani giustificare l’esercizio di azioni di regresso dell’Istituto verso i datori di lavoro, previa contestazione di una ritenuta responsabilità di rilevanza penale. Contestazione rispetto alla quale certamente non gioverà, al datore di lavoro, “la mutevolezza delle prescrizioni da adottare nei luoghi di lavoro”: nonostante il comunicato stampa INAIL mostri sul punto una sorprendente diversa opinione.