Coronavirus e sicurezza nelle attività produttive: verso la Fase 2. Obblighi COVID-19 del datore di lavoro, art. 2087 c.c., rischio zero. Può esserci responsabilità per omissione di misure non previste dalla legge?

Si avvicina il momento della cosiddetta Fase 2, quella della ripresa delle attività produttive dopo la sospensione forzata introdotta dal DPCM 22 marzo 2020.

In attesa di sapere chi e quando potrà riaprire, una cosa è certa: si potrà farlo soltanto se sarà garantita la sicurezza dei lavoratori e dei luoghi di lavoro.

Le norme che detteranno regole e limiti per chi riapre non ci sono ancora, ma una panoramica di quello che possiamo aspettarci è possibile ripercorrendo con gli occhi del “dopo” i temi che hanno contraddistinto il “prima”, e cioè questi due mesi nei quali si è passati dalle prime misure anti-contagio senza limitazioni per le attività produttive, alla fase di sospensione generalizzata salve eccezioni, alla condivisione dei Protocolli di prevenzione.

Abbiamo già esaminato il tema “DVR”; ma c’è un altro tema di carattere generale sul quale è necessario soffermarsi, in questa fase in cui vige uno stato di emergenza, dichiarato dal Consiglio dei Ministri in data 31 gennaio 2010 per la durata di sei mesi, in conseguenza “del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”.

Quale applicazione può avere l’art. 2087 c.c.? Il datore di lavoro può essere ritenuto responsabile, se non adotta misure prevenzionali che non sono espressamente prescritte?

Nelle analisi sviluppate dagli interpreti in queste settimane sugli obblighi del datore di lavoro in relazione al rischio COVID-19, è frequente trovare il richiamo all’art. 2087 c.c. e all’obbligo di “adottare le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare” la salute del lavoratore.

In particolare, sul tema delle misure da adottare, ricorre l’affermazione secondo cui il datore di lavoro deve adottare non solo le specifiche misure di tutela imposte dagli atti normativi, ma anche ogni altra misura ricavabile – appunto ai sensi dell’art. 2087 c.c. – dal sapere scientifico e tecnologico;  con il corollario intimamente correlato dell’obbligo di applicazione del principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, di cui all’art. 15 lettera b) del D.Lgs. n. 81/08.

E’ un principio pacifico, ed anzi uno dei capisaldi dell’ordinamento della materia.

Ma questa affermazione viene a volte accompagnata dalla tesi secondo cui la valutazione del rischio-COVID-19 la deve fare il datore di lavoro nel DVR, e poi dall’ulteriore richiamo alla definizione di “salute” contenuta nell’art. 2 lettera o) del Decreto 81 (“stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”); e allora è facile ricavarne la conseguenza (che magari quegli interpreti non esprimono a chiare lettere, ma che inequivocabilmente sottendono): il rischio di contagio (che certamente esiste ovunque perché non prevenibile in assoluto – principio pacifico in tutti i provvedimenti delle Autorità, di qualsiasi livello)  all’interno dei luoghi di lavoro non può/non deve esistere e può/deve essere prevenuto in assoluto, adottando ogni misura immaginabile; quindi, per ogni caso di contagio di un lavoratore andrebbe affermata la responsabilità del datore di lavoro, per non aver fatto tutto quanto l’art. 2087 c.c. gli imponeva di fare per garantire “il completo benessere  fisico” del lavoratore.

Quel che ne deriva è la qualificazione del contagio come infortunio sul lavoro imputabile alla responsabilità del datore di lavoro; lo tratteremo in un prossimo articolo, ma è la inevitabile ricaduta finale della tesi di cui sopra.

Domandiamoci allora se davvero l’art. 2087 c.c. giustifica questa lettura.

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Non è in discussione che l’art. 2087 c.c. va applicato, e che non va affermata una qualche deroga alla norma.

Si tratta piuttosto di dare all’art 2087 c.c. una applicazione corretta e rigorosa, nel suo intrinseco contenuto messo in relazione alla situazione eccezionale tipica del presente stato di emergenza.

L’art. 2087 c.c. è una norma “aperta”,  insegna la giurisprudenza; ma non nel senso che sancisce una responsabilità oggettiva del datore di lavoro; è norma aperta nel senso che il datore di lavoro deve applicare tutte le misure, anche non tipizzate, che sono funzionali alla prevenzione.

Il suo scopo è di evitare che lo sviluppo delle conoscenze, rendendo inattuali le prescrizioni contenute nelle norme, crei un divario tra norma e realtà, a discapito della tutela dei lavoratori che nella realtà vivono ed operano.

Il riferimento, dunque, è il sapere scientifico e tecnologico. Occorre un sapere scientifico e tecnologico.

I criteri che devono guidare il datore di lavoro sono scritti nello stesso art. 2087 c.c.:

  1. la particolarità del lavoro, intesa come “complesso di rischi e pericoli che caratterizzano la specifica attività lavorativa”;
  2. l’esperienza, intesa come “conoscenza di rischi e pericoli acquisita nello svolgimento della specifica attività lavorativa”;
  3. la tecnica, intesa come “progresso scientifico e tecnologico attinente a misure di tutela su cui il datore di lavoro deve essere aggiornato” e che deve cioè conoscere per definizione.

Di fronte al rischio COVID-19, questi parametri danno al datore di lavoro dei margini di manovra che vanno oltre le prescrizioni esplicite dell’Autorità?

Possiamo affermare che esistono un sapere scientifico e tecnologico, un’esperienza lavorativa, una conoscenza analitica dell’impatto sulle singole specifiche attività lavorative, tali da costituire un patrimonio certo di conoscenze che il datore di lavoro può – e quindi deve – conoscere, e da cui può – e quindi deve – ricavare ogni possibile misura di prevenzione anche oltre quelle, che le Autorità gli prescrivono?

E ancora, andando fino alla radice del problema: si può affermare che, per il COVID-19, un “rischio-zero” nei luoghi di lavoro è possibile? Che esistono misure di prevenzione tali per cui il rischio nei luoghi di lavoro può essere non soltanto ridotto, ma addirittura eliminato?

L’emergenza Coronavirus impone di definire quale sia, in questo momento, il sapere scientifico e tecnologico; e la risposta sta nelle incertezze che contraddistinguono l’operare quotidiano del mondo scientifico nell’affrontare una patologia nuova e per molti versi ancora sconosciuta.

Ma l’emergenza Coronavirus porta anche alla superficie una caratteristica di fondo del sistema normativo, in cui il dato pacifico per cui il rischio-zero non esiste (Cass. Civ., n. 8911/2019, n. 4970/2017) convive con l’altro dato normativo secondo cui nel luogo di lavoro (e solo nel luogo di lavoro) esiste un diritto alla salute come “completo stato di benessere”; caratteristica che nella pratica a volte si trasforma in insanabile conflitto, in cui ci si dimentica che al bene assoluto si deve senz’altro tendere, ma purtroppo non sempre ci si può arrivare; sicchè proprio una attuazione – questa sì spesso – atecnica e a-scientifica dell’art. 2087 c.c. costituisce a volte il grimaldello improprio per affermazioni non sempre rigorosamente motivate di responsabilità (che poi questo sia l’unico modo con il quale il nostro ordinamento riesce a dare riconoscimento economico al lavoratore infortunato, di fronte ad un meccanismo indennitario pubblico che deve fare i conti con… i conti, questo è un altro tema ancora).

Un sapere scientifico e tecnologico e un patrimonio di esperienza non esistono, in tema di COVID-19, al di fuori delle poche disposizioni emanate dall’Autorità.

Non è casuale che tutti gli interpreti, che pure richiamano in premessa teorica l’art. 2087 c.c., non siano poi in grado di enunciare quali siano i contenuti di questo sapere.

Non è casuale che tutti questi interpreti richiamino, come unico elemento oggettivo, i principi dei DPCM e dei Protocolli Condivisi, salvo solo aggiungere che è obbligo del datore di lavoro adattare i Protocolli alla specifica realtà aziendale.

Ma proprio qui è il punto.

Non è in discussione il fatto, che ogni datore di lavoro deve adottare nella propria organizzazione tutte le misure indicate dal normatore.

La questione è, se in questa parola dobbiamo includere il legislatore in senso stretto (assai poco utile in questa materia…); oppure l’Autorità amministrativa, e di quale livello (DPCM, Decreti Ministeriali – Salute, Lavoro, Pubblica Amministrazione, Istruzione ecc. -, Ordinanze Protezione Civile, e via dicendo), di quale natura (INAIL, ISS), di quale ambito territoriale (Stato, Regioni, Servizi di Prevenzione Territoriali, ecc.); o se infine contano le Parti Sociali (essendo esse assurte, al di fuori dei tradizionali principi regolatori della efficacia dei relativi atti, al ruolo di vero “legislatore” della materia prevenzionale in virtù di meccanismi che non potranno non essere oggetto di analisi anche della giurisprudenza, se e quando ne derivassero vicende processuali basati sui loro atti).

Se la Fase 2 cominciasse nello scenario attuale, un elenco minimo e sicuramente incompleto di documenti con finalità regolatoria includerebbe almeno: il DPCM 10 aprile 2020, il Protocollo 14 marzo 2020 integrato dal Protocollo 24 aprile 2020; gli altri Protocolli “ministeriali” (19 marzo per i cantieri); i Protocolli di Settore (logistica, ceramica, servizi ambientali…).

Ma esistono anche un Documento Tecnico INAIL; i Rapporti ISS; le Istruzioni Operative delle singole Regioni; e così via.

È auspicabile che sia vero quanto si narra ufficiosamente, e cioè che la Fase 2 verrà disposta dal Governo previa adozione di una nuova ed aggiornata  disciplina delle regole di sicurezza, magari non limitata all’assai poco soddisfacente Protocollo del 24 aprile 2020.

Allo stato, in un regime di attività sospese ed altre non sospese, l’art. 2 comma 10 del DPCM ci dice che le attività non sospese “rispettano i contenuti” del Protocollo Condiviso del 14 marzo 2020.

Il che significa, che DPCM e Protocollo (integrato da quello del 24 aprile, a tutto concedere)  costituiscono il patrimonio di regole e misure che il datore di lavoro deve attuare.

E’ un patrimonio di regole in molti casi assai poco prescrittivo, quello attuale, formulato con la ambigua formula della “raccomandazione” o del “potrà”.

E’ un patrimonio di regole per molti versi generico, in cui l’utilizzo di termini apparentemente tecnici si scontra poi con sfumature incerte o con rimandi contraddittori (ne è un esempio il tema della sanificazione/sanificazione straordinaria/sanificazione ai sensi della Circolare 5443 Ministero Salute).

E’ un patrimonio di regole assai poco congruo nel merito, là dove le Parti Sociali gestiscono, senza apparente titolo, profili di rilievo sanitario assoluto (la certificazione medica di “avvenuta negativizzazione”, l’adozione di mezzi diagnostici), perdipiù inspiegabilmente pretendendo di regolare le funzioni delle posizioni di garanzia come è ad esempio per il medico competente.

Però questo è, ed è questa la via che il datore di lavoro deve seguire per la propria organizzazione.

Se un nuovo DPCM sancirà la ripresa delle attività produttive sospese, e indicherà le regole da adottare (direttamente, o mediante rinvio al Protocollo, o in altra maniera), ebbene anche in questo caso quello sarà il confine del sapere scientifico e tecnologico applicabile.

Ma proprio l’art. 2087 c.c. ci dice una cosa ben precisa: in questo contesto emergenziale di ridotta conoscenza, la regola data dall’Autorità è la sola possibile, e la sola che il datore di lavoro deve seguire.

Una volta applicata, nient’altro gli può essere richiesto.

Se i richiami all’art. 2087 c.c. venissero intesi come pretesto, per affermare che il datore di lavoro dovrebbe/avrebbe dovuto fare qualcosa di più e di diverso, ebbene si tratterebbe di una inammissibile gravissima distorsione del contenuto e del significato di una così preziosa ed importante norma: che è norma di tutela dei lavoratori, ma è anche norma di tutela del datore di lavoro, nella misura in cui definisce i confini ultimi ed insuperabili del suo debito di sicurezza verso il lavoratore.

Non è il tempo di salti in avanti; non è il datore di lavoro che deve sperimentare test sierologici, test rapidi, patenti di immunità; non deve ricercare chissà dove soluzioni innovative.

Sarebbero, per l’appunto, esperimenti; ma l’art. 2087 c.c. non chiede al datore di lavoro di sperimentare; chiede al datore di lavoro di applicare il sapere scientifico e tecnologico certo e condiviso.

Questo principio non va dimenticato ora; né andrà dimenticato in futuro, se e quando si giudicheranno le condotte di oggi.