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Lavoratori “fragili”, COVID-19, smart working: la guida ANMA per il rientro in azienda

E’ stato un piacere per il nostro Studio collaborare con la Associazione Nazionale dei Medici Competenti, la quale ha pubblicato una nota operativa per gestire al meglio il rientro in azienda dei lavoratori “fragili” (per età, immunodepressione, patologie oncologiche, ecc.), accompagnata da un nostro commento che la inserisce nel contesto normativo di riferimento.

Clicca qui e leggi la nota e il commento, e scopri gli obblighi di Datore di Lavoro, Medico Competente e Lavoratore.

La “nuova” sicurezza sul lavoro post COVID-19: quali adattamenti saranno necessari?

La “nuova” sicurezza sul lavoro post COVID-19: quali adattamenti saranno necessari? Ne parliamo in questo articolo, pubblicato nell’ultimo numero di “Rivista 231”, anche nella prospettiva della responsabilità 231 e del ruolo dell’ODV.

Ecco perché il Coronavirus non può essere (sempre) infortunio sul lavoro

L’origine professionale del contagio deve essere provata, non presunta. Di responsabilità non si dovrebbe neppure iniziare a discutere, se manca la prova del contagio sul lavoro.

1. L’infezione da Coronavirus come malattia-infortunio

E’ la legge, e non INAIL, ad avere introdotto la qualificazione della infezione da Coronavirus (SARS-CoV-2) come infortunio sul lavoro; ma certo INAIL ci ha messo del suo.

L’art. 42 della legge n. 27/2020 (conversione del D.L. n. 18/2020) è noto: “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato”.

Ciò garantisce al contagiato le prestazioni INAIL  “anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro”.

La norma si basa sulla nozione giuridico-dottrinaria di “malattia-infortunio”, fondata sulla equiparazione della causa virulenta alla causa violenta. Posto che ciò che distingue l’infortunio sul lavoro dalla malattia professionale non è la conseguenza per la persona, bensì la modalità con cui opera l’agente causale (notoriamente l’infortunio si qualifica per la “causa violenta”, la malattia invece per una azione prolungata nel tempo), utilizzando il criterio della causa virulenta da tempo l’ordinamento ha dato tutela alle malattie infettivo-parassitarie attraverso il loro inquadramento assicurativo nella categoria degli infortuni.

Per il contagio da COVID-19, la circolare INAIL n. 13 del 3 aprile 2020 interpretativa dell’art. 42 ha dunque fatto applicazione dell’indirizzo INAIL in materia di malattie infettive e parassitarie di cui alla Circolare INAIL n. 74 del 23 novembre 1995: “la causa virulenta è equiparata a quella violenta”.

Di qui, l’affermazione per cui la infezione da Coronavirus è infortunio; ma naturalmente, per essere infortunio “sul lavoro” e quindi indennizzabile INAIL, deve essere provata la causa di lavoro.

2. Il problema della prova della origine professionale: la presunzione semplice

Qual è il momento contagiante? Come può dimostrarsi che l’infezione è stata contratta per causa di lavoro?

E’ su questo punto, che la Circolare INAIL n. 13 introduce le regole che tanta preoccupazione stanno determinando in tutti coloro i quali operano nei luoghi di lavoro con una posizione di garanzia (il datore di lavoro, ma certo non solo lui).

Ciò che l’art. 42 richiede, in quanto indispensabile per qualificare un infortunio come “sul lavoro”, è che il caso di infezione da Coronavirus  sia “accertato” come contratto “in occasione di lavoro”.

Sulla definizione di occasione di lavoro, la Circolare INAIL n. 13 richiama “tutte le condizioni temporali, topografiche e ambientali in cui l’attività produttiva si svolge e nelle quali è imminente il rischio di danno per il lavoratore, sia che tale danno provenga dallo stesso apparato produttivo e sia che dipenda da situazioni proprie e ineludibili del lavoratore”.

Ma può esservi contagio in occasione di lavoro, se il rischio di contagio costituisce un rischio generico?

Nel sistema di assicurazione degli infortuni sul lavoro di cui al D.P.R. n. 1124/1965 – non dimentichiamoci che l’art. 42 della legge n. 27/2020 si intitola “Disposizioni INAIL” – “rischio generico” è quello che non ha relazione con l’attività lavorativa e professionale ma grava in maniera uguale e indiscriminata su tutti i cittadini, lavoratori e non. Esso non è oggetto di copertura assicurativa INAIL. Quindi, una persona che contrae l’infezione per un contatto avvenuto per la strada o in qualsiasi momento della sua vita privata non ha diritto a tutela, indipendentemente dal fatto che si tratti di un lavoratore (cioè di soggetto rientrante nella categoria dei soggetti tutelati dal Testo Unico INAIL) oppure no.

La persona del lavoratore è tutelata quando l’infezione è contratta per una esposizione ad un “rischio specifico”, se cioè il rischio di contagio ha una relazione causale diretta con l’attività lavorativa esercitata. E’ il principio in forza del quale il camionista o l’autista del bus è tutelato per i rischi della circolazione stradale: per quei lavoratori si tratta di rischi lavorativi a tutti gli effetti.

Una ulteriore specificazione riguarda le ipotesi del “rischio generico aggravato”, cioè i casi in cui un rischio è astrattamente generico, ma è aggravato da particolari fatti o circostanze che lo ricollegano all’attività lavorativa svolta al punto da far ritenere il lavoratore come meritevole di tutela assicurativa.

In situazioni di questo tipo, la giurisprudenza ha elaborato in passato il principio della “Presunzione Semplice d’Origine”: la prova di un contagio di supposta origine professionale, sebbene non dimostrata, può ritenersi presunta in presenza di gravi, precisi e concordanti elementi.

Sviluppato ad esempio per rischi professionali di infezione da Epatiti o AIDS, il principio ha trovato applicazione da parte di INAIL ritenendo l’origine professionale per soggetti esposti per motivi professionali al contatto con sangue e sperma: chirurghi, infermieri addetti a prelievi di sangue, personale addetto a manipolazione di sangue o sperma per accertamenti di laboratorio.

3. Contatti con i malati, contatto con il luogo, contatti con il pubblico/l’utenza: tre diversi casi di presunzione semplice.

Ebbene, nel caso della pandemia, la Circolare 13  afferma che gli operatori sanitari sono “esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus”.

Questo non dovrebbe significare che per tutti gli operatori sanitari contagiati si verte in ipotesi di infortunio; l’Istituto dovrebbe comunque compiere una propria indagine finalizzata a verificare, ad esempio, la compatibilità temporale del periodo di incubazione, il contatto con un soggetto in condizioni tali da trasmettere il contagio, ma anche la esclusione di comportamenti extraprofessionali “a rischio”.

Senonchè, la Circolare INAIL n. 13 prosegue oltre, nella sua applicazione della presunzione semplice:

“A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari”.

L’ambito di applicazione dello strumento presuntivo si allarga di molto.

INAIL di fatto tratta allo stesso  modo, ai fini probatori (anzi, presuntivi) il contatto con i malati o i casi sospetti di Coronavirus (sono i soggetti “a rischio” con i quali vengono a contatto per lavoro gli operatori sanitari) e il contatto con il pubblico/l’utenza (cioè le persone “comuni” con le quali vengono a contatto per lavoro gli addetti alle vendite, front-office, ecc.); INAIL tratta allo stesso modo anche i contatti non con le persone, ma con il luogo in cui le persone infette sono in qualche modo presenti o anche solo transitate, o con “le cose” che ivi si trovano (è il caso del personale non sanitario degli ospedali).

E’ evidente che si pone un problema legato al fondamento scientifico di questa equiparazione, ad esempio in tema di modalità di circolazione e trasmissione del virus, ma non è certo il nostro tema.

Quello che possiamo osservare, sul piano normativo, è invece che  tra il DPCM 11 marzo 2020 e il DPCM 17 maggio 2020 esiste un abisso, in punto di presunzione di contagio da contatto: il divieto quasi assoluto di contatto diretto tra le persone allora introdotto è stato ora di fatto eliminato dal legislatore, sostituito da una regola di segno contrario secondo cui è possibile muoversi liberamente, salve talune circostanze particolari.

E’ ancora possibile affermare in questo mutato contesto – ammesso che lo fosse prima – che il contatto con l’utenza è fattore di rischio, o meglio di “aggravamento del rischio” rispetto al rischio generico di contagio?

Inoltre, quanto contano i comportamenti extraprofessionali, i contatti del lavoratore fuori dell’orario di lavoro, i contatti dei suoi familiari, congiunti, amici, conoscenti, di tutti coloro che possono ora essere liberamente frequentati?

La discussione naturalmente è aperta; ma ci sembra che proprio questo sia un punto fondamentale, e cioè rimuovere la convinzione che la Circolare INAIL  (una circolare anch’essa, alla fine) abbia detto una parola definitiva; a maggior ragione ove si considerino le circostanze assolutamente – quelle sì – emergenziali in cui fu emanata.

4. I lavoratori fuori della presunzione semplice, cioè tutti gli altri.

Cosa accade invece per tutte le altre categorie di lavoratori?

La Circolare INAIL si occupa anche di loro:

“Residuano quei casi, anch’essi meritevoli di tutela, nei quali manca l’indicazione o la prova di specifici episodi contagianti o comunque di indizi “gravi precisi e concordanti” tali da far scattare ai fini dell’accertamento medico-legale la presunzione semplice.  In base alle istruzioni per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, la tutela assicurativa si estende, infatti, anche alle ipotesi in cui l’identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica. Ne discende che, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga, l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale”.

In sostanza, INAIL non afferma che ogni caso di contagio di un lavoratore è infortunio sul lavoro; afferma esattamente il contrario, e cioè che l’infezione diventa tale solo se è dimostrato che è tale.

INAIL afferma che ognuno di questi casi deve essere affrontato singolarmente e fatto oggetto di specifica istruttoria; in altre parole, ogni volta che un lavoratore contrae l’infezione, deve verificarsi: 1) se è noto e/o se viene provato l’episodio che ha determinato il contagio, oppure 2) se ci sono elementi presuntivi legati alla specifica fattispecie oppure 3) se l’accertamento medico-legale conduce ad affermare la natura “lavorativa” del contagio. Se nessuno di questi casi si configura, l’infezione non potrà essere trattata come infortunio sul lavoro; si tratterà di ordinaria malattia.

Tutto secondo i principi, allora?

Dipende da come le tre circostanze vengono intese; dipende se e quanto uso si farà di presunzioni; dipende da come verrà gestita la “’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale”.

Quello che il datore di lavoro può e deve temere, ad esempio, è che si finisca per includere, tra le circostanze “privilegiate”, le eventuali violazioni rilevate nel luogo di lavoro delle regole di contenimento del contagio.

Sarebbe profondamente sbagliato: la violazione della regola cautelare di prevenzione rileva ai fini della colpa, per imputare al datore di lavoro la responsabilità di un contagio;  ma una tale affermazione di responsabilità richiede prima, appunto, la prova che quel contagio è avvenuto in azienda.

Però questa “necessità” di prova non emerge, dall’art. 42; anzi, quello che da esso è derivato è l’obbligo di redigere la denuncia di infortunio da parte del datore di lavoro, per il solo fatto che il contagiato è un lavoratore e solo per questo motivo.

Non si tratta, si badi, di negare la tutela assicurativa ai contagiati in occasione di lavoro; si tratta di interrogarsi sull’uso dello strumento presuntivo.

Quello che appare poco condivisibile, della norma, è che essa sembra ignorare il dato di fondo sul piano scientifico e tecnico, e cioè la mancanza di qualsiasi certezza che consenta di dare un minimo di contenuto concreto alla parola chiave dell’art. 42: infezione “accertata…in occasione di lavoro”.

Si dà per scontato, nella formulazione della norma, che sia infortunio sul lavoro soltanto la infezione “accertata”, e questo è corretto; ma non si è voluto fare i conti con i rischi di una applicazione impropria per ovviare le difficoltà di questo accertamento.

La Circolare n. 13, dal canto suo, verosimilmente nel lodevole intento di dare tutela ai lavoratori più coinvolti nella fase violenta dell’epidemia, ha applicato in maniera lapidaria e perentoria un sistema di presunzioni semplici che probabilmente avrebbe meritato ben altro studio del caso concreto, e che sicuramente oggi richiede una profonda riflessione e probabilmente una rivisitazione.

Insomma, oggi si parla molto di responsabilità e giustamente si critica l’art. 42 per questo: ma prima ancora di discutere il tema della responsabilità civile e penale del datore di lavoro, ci sembra che sia da mettere in discussione la tesi che ne è  presupposto, e cioè la natura stessa del contagio come infortunio.

E’ la premessa che va innanzitutto cambiata; è la deroga all’onere della prova sull’origine professionale, la distorsione che per prima va combattuta.

5. INAIL ha davvero escluso la responsabilità del datore di lavoro?

Gli interventi di questi giorni di INAIL (il comunicato stampa del 15 maggio 2020 che ricorda gli oneri probatori in sede civile e penale per aversi responsabilità del datore di lavoro; l’intervista del Presidente ad un quotidiano) sono senz’altro apprezzabili, nel loro intento di dire una parola di tranquillità; ma forse suscitano proprio l’effetto contrario. Perché se INAIL parla di responsabilità, anche se per metterla in dubbio, vuol dire che già siamo in un contesto di infortunio sul lavoro.

Nulla dice INAIL, invece, per rettificare il tiro sull’utilizzo della presunzione semplice in maniera massiva; né detta direttive precise, rigorose e stringenti sui criteri di accertamento dell’origine professionale.

Se la ragione di questo silenzio è la mancanza di certezze scientifiche sufficienti, è più una preoccupazione che una consolazione.

In realtà, INAIL avrebbe potuto valorizzare, nel dibattito in corso,  ciò che l’art. 42 dispone espressamente, e cioè che gli eventi infortunistici di cui si discute “non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico” dell’azienda. Questa precisazione dovrebbe confermare la natura mutualistica dell’art. 42, e che la scelta del legislatore è stata quella di assicurare tutela ai contagiati ma al tempo stesso di non addebitare le relative conseguenze economiche al datore di lavoro, evidentemente per l’impossibilità di imputare a lui la responsabilità del contagio.

Però nessuna voce si è udita da INAIL in questo senso; anzi ed al contrario, non appare infondato il timore che proprio la necessità di recuperare gli oneri di questa tutela estesa possa un domani giustificare l’esercizio di azioni di regresso dell’Istituto verso i datori di lavoro, previa contestazione di una ritenuta responsabilità di rilevanza penale. Contestazione rispetto alla quale certamente non gioverà, al datore di lavoro, “la mutevolezza delle prescrizioni da adottare nei luoghi di lavoro”: nonostante il comunicato stampa INAIL mostri sul punto una sorprendente diversa opinione.

Coronavirus e sicurezza nella Fase 2. I Comitati Aziendali COVID-19: i quesiti più ricorrenti.

Una delle caratteristiche distintive dei Protocolli Condivisi di regolamentazione delle misure per il contenimento del contagio da COVID-19, a partire dal Protocollo del 14 marzo 2020 poi aggiornato dal Protocollo del 24 aprile 2020 (ora allegato 6 al DPCM 26 aprile 2020) è la introduzione di un “Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione”.

La costituzione di tale Comitato è oggetto di un punto specifico tanto nel Protocollo per gli Ambienti di Lavoro allegato 6 (punto 13), quanto nel Protocollo per i Cantieri allegato 7 (punto 10); il Comitato è citato anche nel terzo Protocollo allegato al DPCM e cioè quello per il Trasporto e la Logistica allegato 8.

Datori di lavoro, RSPP, Medici Competenti, lavoratori, sono molti i soggetti che si stanno interrogando su questi Comitati: affrontiamo qui le domande più ricorrenti.

1. Chi sono i componenti del Comitato?

I Protocolli del 24 aprile non dispongono nulla sulla composizione del Comitato, salvo che ad esso partecipano le rappresentanze sindacali aziendali e il RLS.

Questa è, quindi, l’unica presenza da cui non si può prescindere: RSA e RLS (non altri lavoratori che non abbiano quelle qualifiche, peraltro).

In realtà, si tratta di componenti “necessari” soltanto nel caso in cui tali figure esistano all’interno del luogo di lavoro: ma potrebbero anche non esserci, ed infatti, i Protocolli contemplano la possibilità che il Comitato Aziendale non venga costituito.

L’altra presenza che si deve ritenere necessaria è quella della parte datoriale (è bene precisarlo, anche se non è menzionata): del resto, il Comitato è costituito “in azienda”, con lo scopo di applicare e verificare il Protocollo Aziendale che è atto (e documento) del datore di lavoro; sarebbe impensabile un Comitato, costituito per gestire il fenomeno COVID-19 in azienda, che non veda la presenza datoriale. Altra questione è, invece, chi debba farne parte in rappresentanza dell’azienda.

Parte datoriale e parte sindacale sono dunque gli unici componenti necessari del Comitato.

2. Al Comitato deve partecipare il datore di lavoro personalmente?

Non è obbligatorio che il Comitato veda la presenza personalmente del datore di lavoro, intendendo per tale il soggetto individuato ai sensi dell’art. 2 comma 1 lettera b) del Decreto 81/08; sarà componente del Comitato il soggetto che il datore di lavoro riterrà di designare in funzione della organizzazione aziendale e delle proprie scelte, appunto, datoriali. Potrà trattarsi del delegato art. 16, ove esistente; ma anche di un delegato “generico”, per dire così, appositamente indicato per lo scopo; potrà essere un soggetto appartenente alle funzioni della produzione, delle risorse umane, dell’HSE, e così via. Potrà anche trattarsi di più soggetti tra questi, qualora il datore di lavoro ritenga che sia opportuno.

La sola condizione, che sembra doversi individuare, è che si tratti di una figura che occupa un ruolo aziendale significativo e adeguato alla funzione del Comitato e quindi al confronto con la parte sindacale.

3. Al Comitato devono partecipare necessariamente il RSPP e il Medico Competente?

I Protocolli del 24 aprile non richiedono nessuna composizione specifica del Protocollo, a parte la presenza di RSA e RLS.

Il fatto che essi nulla dicano sulla partecipazione al Comitato di RSPP e Medico competente  è chiaro indice della scelta di lasciare libertà nella costituzione dell’organismo.

Una presenza obbligata del RSPP e/o del MC, d’altro canto, non appare giustificata né dalla natura di questo organo collegiale, sostanzialmente concepito come un soggetto di partecipazione delle (contro)parti sindacali, né dalla sua funzione, che appare disegnata come momento di confronto e di (appunto) partecipazione.

RSPP e MC non appaiono, a maggior ragione quali soggetti esterni alla organizzazione, naturali elementi costitutivi di questa realtà di partecipazione; anzi la loro presenza si mostra per molti versi poco in linea con la funzione dell’organismo.

Naturalmente, le azioni e le valutazioni di RSPP e MC – che continuano comunque ad essere compiute, nell’ambito dei rispettivi compiti – potranno ben essere utilizzate e valorizzate dal Comitato nell’esercizio delle proprie funzioni.

Diversa può essere la risposta se le aziende aderiscono ad organizzazioni firmatarie di specifici Protocolli che dispongono in tal senso (ad esempio il Protocollo Moda del 15 aprile 2020); ma certo sono funzioni che poco hanno a che vedere con la funzione partecipativa dell’organismo quale momento di confronto aziendale.

La libertà di composizione si traduce anche, in termini concreti, nella mancanza di un obbligo di un RSPP (esterno, per l’interno ovviamente la dinamica è tutt’altra trattandosi di un rappresentante della parte datoriale in senso lato) o di un MC, di divenire componente di un Comitato Aziendale contro la sua volontà, o comunque in forza di un qualche inesistente automatismo con la funzione.

4. Quali funzioni ha il Comitato?

I punti dei due Protocolli del 24 aprile che introducono i Comitati si intitolano entrambi “Aggiornamento del Protocollo di Regolamentazione”.

La funzione del Comitato Aziendale è così già chiaramente indicata: si tratta di un organismo il cui scopo è di fare in modo che il Protocollo Aziendale sia aggiornato alle esigenze di un fenomeno in continua evoluzione.

I due Protocolli enunciano in maniera identica anche la funzione del Comitato nel corpo dei due articoli: Comitato “per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione”.

Applicazione, verifica, aggiornamento: il Comitato Aziendale è strumentale a questi obiettivi.

La logica è quella della partecipazione (nel Protocollo Servizi Ambientali del 19 marzo 2020, il paragrafo che costituisce il  Comitato si intitola “Partecipazione-Livello Aziendale”).

Come si ricorderà, i Protocolli nascono da un esplicito invito del DPCM 11 marzo 2020 ad intese “tra organizzazioni datoriali e sindacali”. I Comitati sono il risultato di quelle intese, e lo strumento attraverso cui le parti che le hanno firmate hanno voluto poi dare a questa partecipazione una continuità di azione.

5. In cosa consiste la funzione del Comitato di “verifica” del Protocollo?

La natura spiccatamente sindacale e partecipativa del Comitato consente di dare un significato ben definito alla nozione di “verifica”, l’unica che potrebbe far insorgere qualche incertezza sull’ambito di azione del Comitato, sul contenuto delle sue attività, e in ultima analisi anche sulla rilevanza giuridica di esse (anche in termini di responsabilità).

La parola “verifica”, infatti, ha un peso particolare, quando si parla di sicurezza sul lavoro, in quanto teoricamente affine a concetti come “vigilanza”, “controllo”, e simili.

In realtà, già sul piano letterale (pur nella consapevolezza che la tecnica di scrittura dei Protocolli Condivisi non è cristallina) si può innanzitutto osservare che non si parla, appunto, di “vigilanza”, intesa come azione puntuale di controllo momento per momento specificamente finalizzata ad accertare l’osservanza delle regole ed a prevenirne la violazione.

Già letteralmente, dunque, il Comitato non compie attività di vigilanza operativa.

Ma è soprattutto sul piano sistematico, che la “verifica” non può essere letta come “vigilanza”.

Innanzitutto perché il sistema aziendale di vigilanza sulle regole già esiste, e certamente opera per le regole anti-contagio come per ogni altra regola di prevenzione. Creare un organo di vigilanza ulteriore, al di fuori perdipiù di ogni schema normativo, è del tutto inutile ai fini della tutela, e fonte di insuperabile confusione ai fini dell’applicazione.

In secondo luogo perché la funzione di vigilanza è del tutto estranea alla logica della partecipazione, laddove la nozione di “verifica” indica invece in maniera chiara l’intento delle parti firmatarie: assoggettare il Protocollo Aziendale a momenti di analisi partecipata, nei quali appunto “verificare” assieme – datore e sindacato – se le regole previste hanno dato buona prova di sé, se sono compatibili con l’organizzazione e con il suo funzionamento, se sono adeguate rispetto all’andamento del fenomeno pandemico, e così via.

Ogni diversa interpretazione, che attribuisse al Comitato funzioni di vera e propria vigilanza, dovrebbe fare i conti con una serie di questioni di difficile (impossibile?) soluzione: la rispondenza costituzionale e legislativa di un organismo avente funzioni di vigilanza ma creato da parti private; le modalità di esercizio della vigilanza; l’esistenza o meno di poteri in capo al Comitato, e se sì di quale natura; la disciplina delle conseguenze in caso di accertamento delle violazioni; la responsabilità dei componenti del Comitato per omessa o inadeguata vigilanza.

6. Quale rapporto esiste tra le figure del sistema di sicurezza aziendale e il Comitato?

La costituzione del Comitato non fa venire meno, ovviamente, il sistema di sicurezza aziendale operante ai sensi del Decreto 81/08; ma neppure si affianca ed aggiunge ad esso come una sorta di organismo ulteriore che replica le funzioni di quel sistema.

Così come RSPP e MC concorrono alla definizione delle misure nell’ambito delle loro funzioni, supportando il datore di lavoro secondo lo schema consueto e ben noto, così i soggetti aziendali della sicurezza continuano a svolgere il loro ruolo nella fase di attuazione delle regole di prevenzione anti-contagio: lo faranno i dirigenti ed i preposti per la operatività concreta e per la vigilanza, lo faranno il RSPP e il MC per l’esercizio del loro ruolo.

Il Comitato si pone ad un altro e diverso livello, di confronto sull’andamento delle cose.

In sostanza, il Comitato è la sede istituzionalizzata in cui parte datoriale e parte sindacale sono chiamate a svolgere il proprio confronto partecipativo: in quella sede, il Comitato ragiona sui dati e sulle informazioni che le funzioni aziendali (ivi comprese quelle di parte lavoratori, RLS in primis) avranno raccolto nell’esercizio della loro attività; quei dati e quelle informazioni costituiranno il presupposto di conoscenza necessario al Comitato per determinare se il Protocollo è davvero applicato, per verificare se le misure sono attuate in maniera soddisfacente, se necessitano di correttivi, e così via.

7. Che rapporti ci sono tra il Comitato e l’Organismo di Vigilanza 231?

L’Organismo di Vigilanza 231 conforma il proprio operato, in relazione al rischio COVID-19, secondo i canoni che gli sono propri e nell’ambito delle regole tracciate dal Modello di Organizzazione e Gestione dell’ente. Da questo punto di vista, tra Comitato e OdV non ci sono relazioni particolari: né rapporti privilegiati, né posizioni conflittuali, né sovrapposizioni. Per il Comitato, la presenza e/o l’operato dell’OdV rimangono questioni sostanzialmente estranee e di nessun interesse; il Comitato non è certo la sede per sindacare il generale approccio dell’ente alla materia della sicurezza sul lavoro. Per l’OdV, potrà essere utile conoscere gli esiti delle attività del Comitato e le valutazioni espresse da questo, trattandosi di una delle fonti informative utili a compiere la generale azione di vigilanza sulla attuazione del Modello 231.

8. Il Comitato Aziendale può non esserci?

Per testuale previsione dei Protocolli del 24 aprile 2020, può accadere che “non si dia luogo alla costituzione di comitati aziendali”.

Ciò può essere dovuto alla “particolare tipologia di impresa” (dimensioni, organizzazione, struttura incompatibili con la configurazione di un organo partecipativo) o al “sistema delle relazioni sindacali” (mancanza di RLS, di RSA, o altro); in ogni caso è scritto in maniera inequivocabile, che un Comitato Aziendale può non essere costituito.

Probabilmente, il tenore del Protocollo va inteso nel senso che, là dove RLS e/o RSA vi siano, il Comitato va costituito; ma il dato letterale è chiaro.

Questo risponde anche alla domanda, se sia applicabile una sanzione, e quale, quando si accerti che un Comitato non è stato costituito; e risponde all’ulteriore domanda, quali responsabilità si configurerebbero in caso di infortunio da COVID-19 in un’azienda senza Comitato.

Non si riesce davvero ad immaginare, su quali basi normative ed in riferimento a quali norme potrebbe affermarsi l’applicabilità di una sanzione, o dichiararsi l’esistenza di una  responsabilità per il mero fatto della mancata costituzione del Comitato.

Sarebbe paradossale che l’invito del DPCM a intese sindacali, dopo essersi trasformato nella più o meno inconsapevole culla di regole tra privati divenute norme generali, diventasse anche il primo esempio di responsabilità penale o amministrativa per omessa partecipazione sindacale.

Si può semmai osservare, da ultimo, che proprio la soluzione prevista nel Protocollo del 24 aprile 2020 in caso di mancanza del Comitato Aziendale, e cioè la istituzione di un Comitato Territoriale  composto dagli Organismi Paritetici, conferma una volta di più la natura del Comitato quale organo di partecipazione, e non quale nuova figura del sistema di sicurezza aziendale.

9. Si può ipotizzare un Comitato Aziendale quando mancano RSA e RLS?

Quando mancano in azienda sia la RSA che il RLS, la costituzione di un Comitato Aziendale si risolve in una formalità senza sostanza e senza significato, posto che vi è solo la parte datoriale e posto che le funzioni aziendali operano comunque al di fuori del Comitato; sarebbe pertanto improprio pretendere di trovarlo, in sede ispettiva; sarebbe altrettanto improprio costituirlo (magari solo per mostrare in sede ispettiva che esiste). Quando mancano RSA e RLS e il Comitato Aziendale non si costituisce, ciò che i Protocolli del 24 aprile prevedono è che siano le rispettive organizzazioni sindacali ad attivarsi, in particolare attraverso gli Organismi Paritetici, per istituire un Comitato Territoriale. La partecipazione e il confronto si spostano a livello territoriale.

10. Il Comitato è solo per l’emergenza COVID-19?

Alla base della introduzione del Comitato è la dichiarata esigenza di applicazione e verifica delle regole scritte per gestire la fase emergenziale anti-contagio. Il Comitato opera solo ed esclusivamente in funzione delle regole del Protocollo, e non come organismo che si occupa della sicurezza nei luoghi di lavoro nel loro insieme. Per lo stesso motivo, quando il fenomeno pandemico si esaurirà, porterà via con sé tutto ciò che ha creato: dai Protocolli Aziendali, ai Comitati, alle misure di emergenza.

Si chiuderà una finestra; il sistema di regole “Decreto 81/08” tornerà ad essere guida e riferimento.

VIDEO | Protocollo Anti-Covid19 nella FASE 2 – 7 maggio 2020

Protocollo Anti-Covid19 nella FASE 2 – 7 maggio 2020: guarda il video usando uno dei due link qui di seguito secondo le tue preferenze.

Webinar 7 maggio ore 16 | Sicurezza del lavoro nella FASE 2: il Protocollo Aziendale Anti Contagio

Cosa deve contenere il Protocollo Anti Contagio dell’impresa? Come deve essere adottato?
Quali sono le attenzioni particolari da avere? Quale la disciplina INAIL, e quali le implicazioni assicurative?
Ne parliamo nel webinar gratuito di giovedì 7 maggio 2020 ore 16.00-18.00.

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Dati di localizzazione, tracciamento dei contatti e Covid-19: le linee guida dell’EDPB

L’utilizzo di app per il tracciamento dei contatti sociali (c.d. contact tracing) pone necessariamente una serie di aspetti problematici in materia di privacy e protezione dei dati personali. Il monitoraggio sistematico e su larga scala dell’ubicazione e o dei contatti tra persone fisiche costituisce infatti una grave interferenza nella sfera della vita privata dell’individuo.

Ad oggi, in assenza di provvedimenti del Legislatore, il Commissario Straordinario per l’emergenza COVID-19, con l’ordinanza n. 10/2020, ha disposto di procedere alla stipula del contratto di concessione gratuita della licenza d’uso e di appalto di servizi gratuito con la società creatrice dell’app “Immuni”, prescelta dal Governo. Nell’ordinanza si afferma che il contact tracing è ritenuto un elemento importante all’interno di una strategia sostenibile post-emergenza per un ritorno alla normalità, in quanto tecnologia in grado di rilevare il tracciamento di prossimità in modo molto più efficiente e rapido rispetto a quello tradizionale.

Lo scorso 21 aprile il Comitato Europeo per la Protezione dei Dati (di seguito EDPB) è intervenuto adottando le Linee-guida 04/2020 sull’uso dei dati di localizzazione e degli strumenti per il tracciamento dei contatti nel contesto dell’emergenza legata al COVID-19.

Lo scopo di queste linee guida è solamente quello di fornire dei chiarimenti sulle condizioni e sui principi per un uso proporzionato dei dati di localizzazione e degli strumenti di tracciamento. Il quadro normativo in questo ambito è infatti già rappresentato dal Regolamento UE 679/2016 (GDPR) e dalla Direttiva 2002/58/CE (Direttiva E-privacy) che di per sé consentono di gestire efficacemente tutti gli aspetti relativi alla privacy a fronte alla pandemia in corso.

Con riguardo all’utilizzo dei dati relativi all’ubicazione, l’EDPB ne individua due principali fonti: quelli raccolti da fornitori di servizi di comunicazione elettronica nel corso della prestazione del servizio (come gli operatori di telecomunicazioni mobili), e quelli relativi all’ubicazione raccolti da fornitori di servizi della società dell’informazione la cui funzionalità richiede l’uso di tali dati (ad es: servizi di navigazione).

Questi dati possono essere trattati solo entro i limiti di cui agli artt. 6 e 9 della direttiva 2002/58/CE; ciò significa che il fornitore potrà comunicarli alle autorità o a terzi solo se siano stati resi anonimi ovvero, per il caso in cui non siano dati relativi al traffico, subordinatamente alla raccolta del consenso dell’utente.

L’archiviazione di queste informazioni, ai sensi dell’art. 5 della sopracitata direttiva, può poi avvenire solo se l’utente ha prestato il consenso, ai sensi degli artt. 4 e 7 del GDPR, oppure solo se la memorizzazione e/o l’accesso sono strettamente necessari al servizio esplicitamente richiesto dall’utente.

In ogni caso nelle linee guida in analisi si evidenzia come dovrebbe essere privilegiato il trattamento dei dati relativi all’ubicazione in forma anonimizzata. L’anonimizzazione consente infatti di utilizzare i dati senza limitazioni, eliminando la possibilità di collegarli ad una persona fisica identificata o identificabile con uno sforzo “ragionevole”.

Con riguardo alle app per il tracciamento dei contatti, il loro utilizzo, secondo l’EDPB, può essere legittimato solamente sulla base di un’adozione volontaria da parte degli utenti. Ciò comporta che coloro che non intendano o non possano utilizzare tali applicazioni non debbano subire alcun pregiudizio.

La realizzazione di applicazioni per il tracciamento dei contatti deve poi fondarsi sui principi di responsabilizzazione, di limitazione delle finalità di trattamento, di minimizzazione, di protezione dei dati fin dalla progettazione e di limitazione della conservazione dei dati. In applicazione di questi principi le app non dovrebbero comportare il tracciamento della posizione dei singoli utenti, bensì utilizzare le informazioni di prossimità relative agli utenti stessi. Queste informazioni, che devono essere pertinenti e strettamente necessarie, dovrebbero poi risiedere nell’apparecchiatura terminale dell’utente. Il trattamento delle informazioni così raccolte non necessita del consenso dell’utente esclusivamente laddove le operazioni di trattamento siano necessarie per consentire al fornitore dell’app di rendere il servizio esplicitamente richiesto.

L’utilizzo delle app di tracciamento può poi comportare il trattamento di dati personali relativi alla salute che come tali sono soggetti alle particolari garanzie contenute nell’art. 9 del GDPR. Il Comitato in proposito ricorda che il trattamento dei dati relativi alla salute è consentito quando è necessario per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica (art. 9, co. II, lett. i) del GDPR) o per le finalità dell’assistenza sanitaria (art. 9, co. II, lett. h) GDPR).

In conclusione, l’EDPB chiarisce che l’attuale crisi sanitaria non dovrebbe trasformarsi in un’occasione per derogare al principio di limitazione della conservazione dei dati. La conservazione infatti dovrebbe essere limitata alla luce delle reali esigenze e della rilevanza medica dei dati personali, i quali dovrebbero essere conservati solo per la durata della crisi dovuta al COVID-19, ed al cui termine dovrebbero essere cancellati o resi anonimi.

Coronavirus e sicurezza nelle attività produttive: verso la Fase 2. Obblighi COVID-19 del datore di lavoro, art. 2087 c.c., rischio zero. Può esserci responsabilità per omissione di misure non previste dalla legge?

Si avvicina il momento della cosiddetta Fase 2, quella della ripresa delle attività produttive dopo la sospensione forzata introdotta dal DPCM 22 marzo 2020.

In attesa di sapere chi e quando potrà riaprire, una cosa è certa: si potrà farlo soltanto se sarà garantita la sicurezza dei lavoratori e dei luoghi di lavoro.

Le norme che detteranno regole e limiti per chi riapre non ci sono ancora, ma una panoramica di quello che possiamo aspettarci è possibile ripercorrendo con gli occhi del “dopo” i temi che hanno contraddistinto il “prima”, e cioè questi due mesi nei quali si è passati dalle prime misure anti-contagio senza limitazioni per le attività produttive, alla fase di sospensione generalizzata salve eccezioni, alla condivisione dei Protocolli di prevenzione.

Abbiamo già esaminato il tema “DVR”; ma c’è un altro tema di carattere generale sul quale è necessario soffermarsi, in questa fase in cui vige uno stato di emergenza, dichiarato dal Consiglio dei Ministri in data 31 gennaio 2010 per la durata di sei mesi, in conseguenza “del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”.

Quale applicazione può avere l’art. 2087 c.c.? Il datore di lavoro può essere ritenuto responsabile, se non adotta misure prevenzionali che non sono espressamente prescritte?

Nelle analisi sviluppate dagli interpreti in queste settimane sugli obblighi del datore di lavoro in relazione al rischio COVID-19, è frequente trovare il richiamo all’art. 2087 c.c. e all’obbligo di “adottare le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare” la salute del lavoratore.

In particolare, sul tema delle misure da adottare, ricorre l’affermazione secondo cui il datore di lavoro deve adottare non solo le specifiche misure di tutela imposte dagli atti normativi, ma anche ogni altra misura ricavabile – appunto ai sensi dell’art. 2087 c.c. – dal sapere scientifico e tecnologico;  con il corollario intimamente correlato dell’obbligo di applicazione del principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, di cui all’art. 15 lettera b) del D.Lgs. n. 81/08.

E’ un principio pacifico, ed anzi uno dei capisaldi dell’ordinamento della materia.

Ma questa affermazione viene a volte accompagnata dalla tesi secondo cui la valutazione del rischio-COVID-19 la deve fare il datore di lavoro nel DVR, e poi dall’ulteriore richiamo alla definizione di “salute” contenuta nell’art. 2 lettera o) del Decreto 81 (“stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”); e allora è facile ricavarne la conseguenza (che magari quegli interpreti non esprimono a chiare lettere, ma che inequivocabilmente sottendono): il rischio di contagio (che certamente esiste ovunque perché non prevenibile in assoluto – principio pacifico in tutti i provvedimenti delle Autorità, di qualsiasi livello)  all’interno dei luoghi di lavoro non può/non deve esistere e può/deve essere prevenuto in assoluto, adottando ogni misura immaginabile; quindi, per ogni caso di contagio di un lavoratore andrebbe affermata la responsabilità del datore di lavoro, per non aver fatto tutto quanto l’art. 2087 c.c. gli imponeva di fare per garantire “il completo benessere  fisico” del lavoratore.

Quel che ne deriva è la qualificazione del contagio come infortunio sul lavoro imputabile alla responsabilità del datore di lavoro; lo tratteremo in un prossimo articolo, ma è la inevitabile ricaduta finale della tesi di cui sopra.

Domandiamoci allora se davvero l’art. 2087 c.c. giustifica questa lettura.

*

Non è in discussione che l’art. 2087 c.c. va applicato, e che non va affermata una qualche deroga alla norma.

Si tratta piuttosto di dare all’art 2087 c.c. una applicazione corretta e rigorosa, nel suo intrinseco contenuto messo in relazione alla situazione eccezionale tipica del presente stato di emergenza.

L’art. 2087 c.c. è una norma “aperta”,  insegna la giurisprudenza; ma non nel senso che sancisce una responsabilità oggettiva del datore di lavoro; è norma aperta nel senso che il datore di lavoro deve applicare tutte le misure, anche non tipizzate, che sono funzionali alla prevenzione.

Il suo scopo è di evitare che lo sviluppo delle conoscenze, rendendo inattuali le prescrizioni contenute nelle norme, crei un divario tra norma e realtà, a discapito della tutela dei lavoratori che nella realtà vivono ed operano.

Il riferimento, dunque, è il sapere scientifico e tecnologico. Occorre un sapere scientifico e tecnologico.

I criteri che devono guidare il datore di lavoro sono scritti nello stesso art. 2087 c.c.:

  1. la particolarità del lavoro, intesa come “complesso di rischi e pericoli che caratterizzano la specifica attività lavorativa”;
  2. l’esperienza, intesa come “conoscenza di rischi e pericoli acquisita nello svolgimento della specifica attività lavorativa”;
  3. la tecnica, intesa come “progresso scientifico e tecnologico attinente a misure di tutela su cui il datore di lavoro deve essere aggiornato” e che deve cioè conoscere per definizione.

Di fronte al rischio COVID-19, questi parametri danno al datore di lavoro dei margini di manovra che vanno oltre le prescrizioni esplicite dell’Autorità?

Possiamo affermare che esistono un sapere scientifico e tecnologico, un’esperienza lavorativa, una conoscenza analitica dell’impatto sulle singole specifiche attività lavorative, tali da costituire un patrimonio certo di conoscenze che il datore di lavoro può – e quindi deve – conoscere, e da cui può – e quindi deve – ricavare ogni possibile misura di prevenzione anche oltre quelle, che le Autorità gli prescrivono?

E ancora, andando fino alla radice del problema: si può affermare che, per il COVID-19, un “rischio-zero” nei luoghi di lavoro è possibile? Che esistono misure di prevenzione tali per cui il rischio nei luoghi di lavoro può essere non soltanto ridotto, ma addirittura eliminato?

L’emergenza Coronavirus impone di definire quale sia, in questo momento, il sapere scientifico e tecnologico; e la risposta sta nelle incertezze che contraddistinguono l’operare quotidiano del mondo scientifico nell’affrontare una patologia nuova e per molti versi ancora sconosciuta.

Ma l’emergenza Coronavirus porta anche alla superficie una caratteristica di fondo del sistema normativo, in cui il dato pacifico per cui il rischio-zero non esiste (Cass. Civ., n. 8911/2019, n. 4970/2017) convive con l’altro dato normativo secondo cui nel luogo di lavoro (e solo nel luogo di lavoro) esiste un diritto alla salute come “completo stato di benessere”; caratteristica che nella pratica a volte si trasforma in insanabile conflitto, in cui ci si dimentica che al bene assoluto si deve senz’altro tendere, ma purtroppo non sempre ci si può arrivare; sicchè proprio una attuazione – questa sì spesso – atecnica e a-scientifica dell’art. 2087 c.c. costituisce a volte il grimaldello improprio per affermazioni non sempre rigorosamente motivate di responsabilità (che poi questo sia l’unico modo con il quale il nostro ordinamento riesce a dare riconoscimento economico al lavoratore infortunato, di fronte ad un meccanismo indennitario pubblico che deve fare i conti con… i conti, questo è un altro tema ancora).

Un sapere scientifico e tecnologico e un patrimonio di esperienza non esistono, in tema di COVID-19, al di fuori delle poche disposizioni emanate dall’Autorità.

Non è casuale che tutti gli interpreti, che pure richiamano in premessa teorica l’art. 2087 c.c., non siano poi in grado di enunciare quali siano i contenuti di questo sapere.

Non è casuale che tutti questi interpreti richiamino, come unico elemento oggettivo, i principi dei DPCM e dei Protocolli Condivisi, salvo solo aggiungere che è obbligo del datore di lavoro adattare i Protocolli alla specifica realtà aziendale.

Ma proprio qui è il punto.

Non è in discussione il fatto, che ogni datore di lavoro deve adottare nella propria organizzazione tutte le misure indicate dal normatore.

La questione è, se in questa parola dobbiamo includere il legislatore in senso stretto (assai poco utile in questa materia…); oppure l’Autorità amministrativa, e di quale livello (DPCM, Decreti Ministeriali – Salute, Lavoro, Pubblica Amministrazione, Istruzione ecc. -, Ordinanze Protezione Civile, e via dicendo), di quale natura (INAIL, ISS), di quale ambito territoriale (Stato, Regioni, Servizi di Prevenzione Territoriali, ecc.); o se infine contano le Parti Sociali (essendo esse assurte, al di fuori dei tradizionali principi regolatori della efficacia dei relativi atti, al ruolo di vero “legislatore” della materia prevenzionale in virtù di meccanismi che non potranno non essere oggetto di analisi anche della giurisprudenza, se e quando ne derivassero vicende processuali basati sui loro atti).

Se la Fase 2 cominciasse nello scenario attuale, un elenco minimo e sicuramente incompleto di documenti con finalità regolatoria includerebbe almeno: il DPCM 10 aprile 2020, il Protocollo 14 marzo 2020 integrato dal Protocollo 24 aprile 2020; gli altri Protocolli “ministeriali” (19 marzo per i cantieri); i Protocolli di Settore (logistica, ceramica, servizi ambientali…).

Ma esistono anche un Documento Tecnico INAIL; i Rapporti ISS; le Istruzioni Operative delle singole Regioni; e così via.

È auspicabile che sia vero quanto si narra ufficiosamente, e cioè che la Fase 2 verrà disposta dal Governo previa adozione di una nuova ed aggiornata  disciplina delle regole di sicurezza, magari non limitata all’assai poco soddisfacente Protocollo del 24 aprile 2020.

Allo stato, in un regime di attività sospese ed altre non sospese, l’art. 2 comma 10 del DPCM ci dice che le attività non sospese “rispettano i contenuti” del Protocollo Condiviso del 14 marzo 2020.

Il che significa, che DPCM e Protocollo (integrato da quello del 24 aprile, a tutto concedere)  costituiscono il patrimonio di regole e misure che il datore di lavoro deve attuare.

E’ un patrimonio di regole in molti casi assai poco prescrittivo, quello attuale, formulato con la ambigua formula della “raccomandazione” o del “potrà”.

E’ un patrimonio di regole per molti versi generico, in cui l’utilizzo di termini apparentemente tecnici si scontra poi con sfumature incerte o con rimandi contraddittori (ne è un esempio il tema della sanificazione/sanificazione straordinaria/sanificazione ai sensi della Circolare 5443 Ministero Salute).

E’ un patrimonio di regole assai poco congruo nel merito, là dove le Parti Sociali gestiscono, senza apparente titolo, profili di rilievo sanitario assoluto (la certificazione medica di “avvenuta negativizzazione”, l’adozione di mezzi diagnostici), perdipiù inspiegabilmente pretendendo di regolare le funzioni delle posizioni di garanzia come è ad esempio per il medico competente.

Però questo è, ed è questa la via che il datore di lavoro deve seguire per la propria organizzazione.

Se un nuovo DPCM sancirà la ripresa delle attività produttive sospese, e indicherà le regole da adottare (direttamente, o mediante rinvio al Protocollo, o in altra maniera), ebbene anche in questo caso quello sarà il confine del sapere scientifico e tecnologico applicabile.

Ma proprio l’art. 2087 c.c. ci dice una cosa ben precisa: in questo contesto emergenziale di ridotta conoscenza, la regola data dall’Autorità è la sola possibile, e la sola che il datore di lavoro deve seguire.

Una volta applicata, nient’altro gli può essere richiesto.

Se i richiami all’art. 2087 c.c. venissero intesi come pretesto, per affermare che il datore di lavoro dovrebbe/avrebbe dovuto fare qualcosa di più e di diverso, ebbene si tratterebbe di una inammissibile gravissima distorsione del contenuto e del significato di una così preziosa ed importante norma: che è norma di tutela dei lavoratori, ma è anche norma di tutela del datore di lavoro, nella misura in cui definisce i confini ultimi ed insuperabili del suo debito di sicurezza verso il lavoratore.

Non è il tempo di salti in avanti; non è il datore di lavoro che deve sperimentare test sierologici, test rapidi, patenti di immunità; non deve ricercare chissà dove soluzioni innovative.

Sarebbero, per l’appunto, esperimenti; ma l’art. 2087 c.c. non chiede al datore di lavoro di sperimentare; chiede al datore di lavoro di applicare il sapere scientifico e tecnologico certo e condiviso.

Questo principio non va dimenticato ora; né andrà dimenticato in futuro, se e quando si giudicheranno le condotte di oggi.

Protocollo anti-contagio COVID 19 nei cantieri: quali cantieri, e quali obblighi per committenti, imprese, CSE?

Il Protocollo Condiviso del Ministero Infrastrutture del 19 marzo 2020 per i cantieri prevede le misure da adottare per prevenire il rischio di contagio da Coronavirus nei cantieri.


A quali cantieri si applica? Quali obblighi hanno committenti, imprese, CSE? Quali sono le misure e i costi? Quale l’impatto sui contratti di appalto? Scoprilo ora nel video in allegato.