Patente a crediti nei cantieri: cosa cambia per le imprese (affidatarie ed esecutrici), i lavoratori autonomi, i committenti pubblici e privati.

Il Decreto legge n. 19/2024 all’art. 29, al fine di “rafforzare l’attività di contrasto al lavoro sommerso e di vigilanza in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro” (comma 19) ha introdotto la “patente a crediti” per quanti operano nei cantieri temporanei o mobili. E’ probabile che in sede di conversione del D.L. molte saranno le modifiche e le correzioni alla patente, che comunque non si applicherà prima di ottobre 2024; la prima versione del provvedimento consente tuttavia fin d’ora una riflessione su questo nuovo strumento e sull’impatto che è destinato ad avere, non solo sulle imprese e i lavoratori autonomi che devono “possedere” la patente, ma anche sui committenti e sulla complessiva organizzazione e gestione degli appalti, nel privato come nel pubblico. L’articolo approfondisce le caratteristiche della patente, il ruolo dei crediti, le criticità dei meccanismi di decurtazione, la necessità di coordinare le nuove disposizioni con gli strumenti di controllo e sanzionatori già esistenti.

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1. Le modifiche al Decreto 81/08

L’art. 29 comma 19 del D.L. 2 marzo 2024 n. 19 (G.U. 2.3.2024) modifica tre articoli del Decreto 81: il primo è l’art. 27 sulla qualificazione delle imprese, che viene totalmente sostituito; il secondo è l’art. 90 comma 9 sugli obblighi di verifica del committente di cantiere temporaneo o mobile, che viene integrato con l’aggiunto di una nuova verifica sulla patente; il terzo è l’art. 157 comma 1, di cui viene sostituita la lettera c) introducendo la sanzione amministrativa pecuniaria al committente per la violazione dell’obbligo di verifica della patente.

Esiste una quarta norma del Decreto 81/08 interessata dal D.L. n. 19/2024: si tratta dell’art. 26 comma 1 lettera a), che regola la verifica di idoneità tecnico professionale (di seguito: itp) da parte del committente di lavori intra-aziendali.

2. Il nuovo art. 27 del Decreto 81/08

2.1 La sostituzione del previgente art. 27 del Decreto 81. Un nuovo sistema di qualificazione basato sui crediti

L’art. 29 comma 19 sostituisce integralmente l’art. 27 del Decreto 81 con un “nuovo” art. 27 la cui rubrica ora è “Sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi tramite crediti”.

Non si tratta di attuazione di un articolo che aveva già per oggetto la qualificazione delle imprese: è un nuovo scenario anche in termini di sistema.

Viene eliminato il doppio canale che prevedeva sia un sistema di qualificazione (senza crediti) per settori da individuare di volta in volta,  sia un sistema di qualificazione a crediti per il settore dell’edilizia eventualmente estensibile ad altri ambiti: nel nuovo art. 27 esiste un solo criterio generale di qualificazione ed è quello basato sui crediti.

Inoltre, mentre il “vecchio” art. 27 non regolava direttamente nè il numero dei crediti iniziali né l’entità delle decurtazioni, rimettendo la disciplina attuativa a un D.P.R. da emanarsi su proposta del Ministero del Lavoro sulla base dei criteri elaborati dalla Commissione Consultiva Permanente, ora la norma primaria da un lato detta già molte regole specifiche del sistema a crediti (numeri compresi), dall’altro lato demanda la disciplina applicativa non più allo strumento del DPR ma a decreti del Ministero del Lavoro ed a provvedimenti dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.  Sparisce ogni riferimento sia alla Commissione Consultiva Permanente sia all’art. 6 comma 8 lettera g) del Decreto 81/08, che sembrerebbe da considerare addirittura come tacitamente abrogato. 

L’unico sistema di qualificazione delle imprese ai fini della sicurezza del lavoro è la patente a crediti; se ci sarà un allargamento del sistema ad altri settori, ciò accadrà utilizzando necessariamente questo strumento (nuovo art. 27, comma 10).

2.2 La patente come titolo abilitante all’esercizio dell’attività di impresa

La qualificazione nel nuovo art. 27 si concretizza in un elemento formale: è intesa in sostanza come una “abilitazione” rispetto all’esercizio di attività in cantiere, nel senso che l’operatore deve essere “qualificato” dallo Stato. Ciò avviene attraverso il possesso di un documento, la patente, configurata in tutto e per tutto come un titolo abilitante il cui possesso condiziona il diritto stesso di esercitare l’attività di impresa.

La patente deve essere (i) richiesta dall’interessato, (ii) rilasciata dalla competente sede territoriale dell’INL, (iii) posseduta (mantenuta) nel tempo; è la patente il requisito formale obbligatorio che qualifica all’esercizio dell’attività. I soggetti indicati dalla norma “sono tenuti al possesso della patente” (nuovo art. 27 comma 1); lo svolgimento dell’attività in mancanza del documento è legittimo soltanto “nelle more del rilascio della patente”, cioè a condizione di averne fatto richiesta (comma 2).

All’operatore non viene chiesto di elevare i suoi standard con misure nuove; gli viene imposto di chiedere l’autorizzazione a svolgere la sua attività e di dimostrare che rispetta gli standard già vigenti (presentando DVR, formazione, DURC, ecc.); a seguito di tale domanda dell’interessato, la sede territoriale competente dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro viene investita del potere di decidere se abilitarlo all’esercizio dell’attività. 

2.3 I requisiti sostanziali per il rilascio della patente

Il D.L. n. 19/2024, fatta eccezione per il DURF, disegna i requisiti per la patente rifacendosi sostanzialmente alle norme esistenti del Decreto 81/08: gli obblighi già esistenti (meglio, alcuni di essi) diventano requisiti da “possedere” e da dimostrare.

I requisiti peraltro non devono essere posseduti (e dimostrati) dall’impresa, cioè dall’organizzazione, bensì da una persona fisica; in particolare, il rilascio della patente è subordinato al possesso di essi “da parte del responsabile legale dell’impresa” (nuovo art. 27, comma 1); allo stato si può soltanto segnalare l’anomalia di questa disposizione.

I requisiti richiesti – comma 1, lettere da a) ad f) – sono la iscrizione alla CCIAA, l’adempimento degli obblighi formativi, il possesso di DURC, DVR, DURF. 

Rispetto ai requisiti che il committente di lavori edili deve richiedere secondo l’Allegato XVII per la verifica di idoneità tecnico-professionale (di seguito: itp) manca la dichiarazione riguardante l’art. 14, mentre c’è in più (oltre al possesso del DURF) l’obbligo di dimostrare l’adempimento degli obblighi formativi.

Si tratta, quanto alle imprese, degli obblighi formativi “di cui all’art. 37” da parte di datori di lavoro, dirigenti, preposti, lavoratori: non è richiesta la prova della formazione delle altre figure per le quali la normativa prevede obblighi formativi, ad esempio gli RSPP e ASPP. 

Per quanto riguarda i lavoratori autonomi, l’adempimento da dimostrare riguarda gli “obblighi formativi previsti dal presente decreto”: posto che per l’art. 21 del Decreto 81 la formazione dei lavoratori autonomi è facoltativa, per come la norma è scritta e cioè con rinvio agli obblighi già “previsti” dal Decreto 81/08, è da escludere che si tratti di un tentativo di introdurre in maniera surrettizia un obbligo di formazione dove ora c’è solo una facoltà. 

Sempre con riferimento ai lavoratori autonomi un’altra anomalia è il requisito il possesso del DVR, che i lavoratori autonomi non redigono e non possiedono. Anche qui è da escludere che la norma possa essere intesa come la introduzione in maniera implicita dell’obbligo di DVR, che avrebbe peraltro innumerevoli conseguenze di sistema (una per tutte: i lavoratori autonomi dovrebbero redigere il POS?).

Pur essendo l’art. 27 una norma sulla qualificazione, la norma non soltanto non prescrive requisiti appunto “qualificanti”, ma anzi richiede solo alcuni degli obblighi di base: già si è visto che la formazione è richiesta soltanto in maniera parziale; manca anche qualsiasi riferimento alla sorveglianza sanitaria. 

Della qualificazione specialistica (ad esempio proprio quella del D.P.R. n. 177/2011) non viene chiesto nulla. 

2.4 La “effettiva” qualificazione dipende dal possesso dei crediti minimi.

La qualificazione dell’art. 27 è – lo chiarisce la rubrica dell’articolo – una qualificazione a crediti: ed infatti, se all’inizio l’impresa si qualifica tramite i requisiti sostanziali, poi non è previsto nessun controllo periodico dell’INL sul mantenimento dei requisiti iniziali; l’unico requisito che deve essere conservato nel tempo è, nella patente, un numero di crediti che soddisfa la soglia minima. 

Lo sancisce la prima parte del comma 8: “una dotazione inferiore a quindici crediti della patente non consente di operare nei cantieri”. Anche ai fini sanzionatori, esercizio di attività senza patente o con meno di quindici crediti sono puniti in misura uguale (nuovo art. 27, comma 8 seconda parte).

Il titolo abilitante dunque non è la patente in sé, ma la patente che contiene almeno quindici crediti. 

3. I  soggetti tenuti al possesso della patente.

Sono tenuti al possesso della patente “le imprese e i lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei o mobili di cui all’articolo 89, comma 1, lettera a”.

Non solo imprese edili: conta il “cantiere”, e quindi l’esecuzione di lavori edili o di genio civile.

La patente è necessaria per coloro che operano “nei cantieri”.

Questo significa che l’obbligo di patente non interessa soltanto le imprese edili, perché il cantiere (secondo la norma definitoria che il comma 1 del nuovo art. 27 richiama espressamente e cioè l’art. 89 comma 1 lettera b) è il luogo in cui si svolgono i lavori edili o di genio civile di cui all’Allegato X, il cui elenco è notoriamente assai più ampio. E’ auspicabile che non si ripropongano, questa volta per legittimare le imprese ad entrare in cantiere, tutte le incertezze legate ad una questione mai davvero risolta, e cioè quali sono i lavori edili o di genio civile che individuano un cantiere (uno per tutti: è cantiere il luogo in cui si esegue la manutenzione di impianti?). 

Solo le imprese esecutrici in senso stretto, o anche le imprese che eseguono in cantiere forniture di materiali ed attrezzature?

La patente deve essere posseduta, secondo la norma, dalle imprese che “operano” nei cantieri: l’espressione è atecnica e lascia il dubbio, se si tratti delle imprese esecutrici di cui all’art. 89 comma 1 lettera i-bis), o se invece la patente riguardi tutte le imprese che sono in cantiere e ivi operano, comprese quelle che eseguono forniture di materiali ed attrezzature. 

Come noto, ai sensi dell’art. 96 comma 1-bis le imprese mere fornitrici sono escluse dall’obbligo di redazione del POS, in ragione della mancanza di una attività di “partecipazione” alla lavorazione; il tema è stato ripetutamente affrontato con specifico riferimento alle forniture di calcestruzzo, ma riguarda i fornitori in generale. Escluso l’obbligo di POS, l’art. 96 comma 1-bis peraltro dichiara espressamente applicabile in tali casi l’art. 26; a sua volta l’art. 26 comma 3-bis esclude per le mere forniture l’obbligo di redazione del DUVRI, ma questo non rende estranei al cantiere le imprese  e i lavoratori autonomi fornitori, ai quali rimangono applicabili tutti gli altri commi dell’art. 26.  Ne è riprova il fatto che, pur a fronte dell’esonero di POS (anzi, proprio in ragione di tale esonero) per i fornitori di calcestruzzo (ed i trasportatori) esiste una articolata “Procedura per la fornitura di calcestruzzo in cantiere”, elaborata dalla Commissione Consultiva Permanente e fatta propria anche dal Ministero del Lavoro.

Esiste dunque una disciplina speciale, per i fornitori, relativamente al POS e al DUVRI; però la disciplina sul possesso della patente è materia diversa: il tema è la qualificazione, intesa come abilitazione di un operatore ad essere in cantiere perché in possesso di requisiti adeguati, che è  ben altro dalla redazione dell’uno o dell’altro documento di sicurezza o dalla scelta della procedura da seguire. Ci sembra pertanto che le soluzioni adottate per POS/DUVRI non siano direttamente utilizzabili nel caso di specie per ricavarne una esclusione anche dall’obbligo di patente.

La questione che si pone, dunque, è la seguente: i fornitori sono esclusi dall’obbligo di patente perché non sono imprese esecutrici che eseguono l’opera o parte di essa? Oppure sono soggetti all’obbligo perché operano in cantiere, indipendentemente da ogni qualifica? 

Il dato letterale del nuovo art. 27 comma 1 sembrerebbe includerli nell’obbligo, non potendosi negare che essi “operano” nei cantieri (ovviamente, rimangono escluse le forniture che si arrestano fuori del cantiere). 

Al contrario, il dato letterale del nuovo art. 90 comma 9 lettera b-bis, introducendo la verifica di possesso della patente “nei confronti delle imprese esecutrici o dei lavoratori autonomi”, potrebbe supportare la conclusione contraria, e cioè che non devono munirsi di patente quanti operano nei cantieri senza essere “imprese esecutrici”.

Il dato letterale è incerto, insomma; occorre domandarsi quanto possa contare, sul piano sistematico, la ratio del D.L. n. 19/2024 di rafforzare controllo e vigilanza coinvolgendo l’intera filiera dei cantieri. 

Un chiarimento su questo punto in sede di conversione appare assolutamente necessario: la questione non riguarda i documenti di sicurezza da redigere, bensì la legittimazione stessa dei fornitori ad “operare nei cantieri”.

Le imprese affidatarie non esecutrici devono possedere la patente?

E’ indiscutibile, a nostro avviso, che l’impresa affidataria sia una impresa che “opera” nel cantiere temporaneo o mobile: perfino se non è esecutrice e sub-affida l’intera opera a terzi, il ruolo principale nella gestione dell’appalto le appartiene, essendo colei che organizza la commessa, ed appare ampiamente sufficiente a considerarla tra i destinatari dell’obbligo di patente. 

La perplessità nasce però dal dato letterale della norma.

Da un lato, il nuovo art. 90 comma 9 lettera b-bis) obbliga il committente a richiedere la patente alle imprese esecutrici, ma non nomina l’impresa affidataria; sembrerebbe ricavarsene che un’impresa affidataria, quando non esegue neppure una parte dell’opera con proprie risorse e personale, non deve possedere nessuna patente.

Se poi si guarda all’elenco dei requisiti, che l’impresa deve possedere per chiedere il rilascio della patente, non è compreso nessuno dei requisiti specifici dell’impresa affidataria, cioè quelli previsti dal comma 01 dell’Allegato XVII e che riguardano, come noto, specificamente la idoneità dell’affidataria in termini di gestione e organizzazione dell’appalto nonché dei propri sub-affidatari, e la sua capacità di adempiere al meglio agli obblighi dell’art. 97.

E’ paradossale che una norma intitolata alla qualificazione nei cantieri, e che dovrebbe elevare il livello della filiera degli appalti, trascuri la figura che è centrale per la filiera e per l’intero assetto del cantiere. La sicurezza nei cantieri (e nei luoghi di lavoro in generale) sembra concepita nel Decreto  come una questione che riguarda solo il cantiere “fisico” e la esecuzione delle lavorazioni, dimenticando che la sicurezza è anche (per certi profili soprattutto) organizzazione. 

I cantieri gestiti con DUVRI anziché con il Titolo IV.

Poiché il presupposto per la patente è la esistenza di un cantiere ma non necessariamente di un cantiere gestito con le regole del Titolo IV, si deve ritenere che la patente vada richiesta anche quando i lavori edili vengono gestiti dai committenti non secondo il Titolo IV (PSC e POS) ma mediante DVR e DUVRI. Si tratta dei cantieri che vengono gestiti da committenti datori di lavoro, tramite appalti che comportano l’esecuzione di lavori edili o di genio civile all’interno delle aziende o comunque di luoghi nella disponibilità del committente. Il tema è il rapporto tra l’art. 26 ed il Titolo IV del Decreto 81, questione irrisolta nella normativa.

Qualunque sia la  modalità con cui il committente gestisce questo cantiere (DUVRI, DUVRI con richiesta del POS, DUVRI con PSC e POS, o altro), sicuramente siamo di fronte ad imprese e lavoratori autonomi che operano in cantieri temporanei o mobili; sicchè non sembrerebbero esservi argomenti per escludere, anche in questo caso, la necessità della patente. 

4. L’esonero per le imprese con attestato di qualificazione SOA.

L’obbligo di patente a crediti è prescritto in maniera indistinta per tutte le imprese e lavoratori autonomi che operano nei cantieri.

Non ci sono esenzioni dall’obbligo di possesso della patente basate sulla natura giuridica dell’operatore (ditta individuale, società, ecc.), sulla qualifica (impresa artigiana, ecc,.), sulla dimensione (personale, fatturato, ecc.), sulla natura dei rischi. 

Non ci sono neppure esenzioni basate sulla natura pubblica o privata del cantiere.

Gli unici soggetti che non sono tenuti al possesso della patente sono “le imprese in possesso dell’attestato di qualificazione SOA di cui all’articolo 100, comma 4, del codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo n. 36 del 2023”.

La norma richiama il sistema di qualificazione previsto dalla normativa sugli appalti pubblici di lavori, che consente l’accesso ai lavori pubblici di importo pari o superiore a euro 150.00,00 soltanto agli operatori economici dotati di attestato di qualificazione rilasciato dalle Società Organismi di Attestazione (SOA), società per azioni che a loro volta operano previa autorizzazione di ANAC. 

La condizione per l’esonero dalla patente è il possesso dell’attestato di qualificazione SOA; dovranno dunque possedere la patente non solo tutti gli operatori che non hanno mai lavorato con il pubblico, ma anche quelli privi di SOA che hanno lavorato e lavorano in cantieri pubblici per lavori di importo inferiore a euro 150.000. 

L’attestato di qualificazione SOA è dunque sostitutivo della patente, ma si tratta di una qualificazione che opera su presupposti e con finalità diversi da quelli dell’art. 27.

Dei requisiti previsti nel D.L. n. 19 per ottenere la patente, il sistema SOA ne richiede solo alcuni, che riguardano la regolarità dell’impresa  ma non direttamente la sicurezza (ad esempio, tra i requisiti generali: iscrizione CCIAA, regolarità contributiva, regolarità fiscale); certo alcune delle verifiche per il rilascio della SOA riguardano indirettamente le vicende dell’impresa (ad esempio, l’assenza di provvedimenti impeditivi di cui all’art. 14 del Decreto 81 o la mancanza di sentenze di condanna all’interno della configurazione del grave illecito professionale); ma la qualificazione SOA non ha per suo oggetto diretto l’adempimento degli obblighi del Decreto 81, non richiede né accerta l’esistenza di un DVR, né l’adempimento degli obblighi di formazione. Non a caso, l’attestazione SOA non è sostitutiva, nell’appalto pubblico, dell’obbligo del committente di verificare la itp dell’affidatario (e dei sub-affidatari) secondo le regole del Decreto 81/08 (art. 90 comma 9 e Allegato XVII).

Inoltre, l’attestazione SOA non è una qualificazione a crediti, non prevede alcun sistema di crediti né ovviamente alcuna decurtazione. 

Le circostanze che comportano decurtazione dei crediti in danno dei soggetti possessori di patente a crediti sono pertanto del tutto indifferenti per chi è titolare di attestazione SOA; il D.L. n. 19/24 non prevede nulla nei confronti di questi, né sarebbe materialmente possibile applicare la decurtazione rispetto ad una attestazione che non funziona con i crediti. 

Ci sono dunque due sistemi di qualificazione diversi, di cui uno è sottratto a tutta la disciplina dei crediti e del relativo sistema sanzionatorio. 

L’ultima annotazione sulle relazioni con il sistema SOA riguarda il fatto che, secondo l’art. 100 comma 10 del Codice dei Contratti Pubblici, il sistema di qualificazione dovrebbe essere esteso con apposito regolamento anche agli appalti di servizi e di forniture. Potrebbe derivarne un ulteriore effetto sul sistema della patente nei cantieri, in relazione alle imprese e lavoratori autonomi che in cantiere svolgono servizi e forniture e non lavori; a maggior ragione ci sarebbero rilevanti effetti se il sistema della patente venisse esteso “ad altri ambiti di attività” (nuovo art. 27, comma 10) diversi dai cantieri temporanei o mobili.

5. Il provvedimento di rilascio della patente

Sul funzionamento della procedura di rilascio della patente non si può dire molto, in attesa non solo della conversione in legge, ma anche del decreto del Ministero del Lavoro che ne definirà i contenuti.

Per ora, si può osservare che la patente si ottiene a domanda del soggetto interessato (nuovo art. 27, comma 9), cui segue un apposito provvedimento di rilascio da parte della competente sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro. 

Il procedimento sarà verosimilmente diverso se il controllo dei requisiti da parte delle sedi INL sarà configurato come “check list” per verificare la mera presenza dei documenti (auspicabilmente non basterà l’autocertificazione), o invece come vero e proprio esame nel merito del contenuto degli stessi. La prima ipotesi appare più plausibile in termini di fattibilità concreta, di tempi di risposta, ed anche di “qualificazione” dell’autorità controllante; sarebbe tuttavia la conferma che il sistema, più che sulla qualificazione, poggia sui crediti e sulla loro decurtazione. La seconda ipotesi, in ogni caso, rischierebbe di trasformare le sedi INL in una sorta di depositarie dell’interpretazione autentica del Decreto 81, da cui dipenderebbe la prosecuzione stessa dell’attività del richiedente. 

Nel senso di un controllo “leggero” dei requisiti in sede di esame della domanda sembra essere anche la regola secondo cui “nelle more del rilascio della patente è comunque consentito lo svolgimento delle attività” (nuovo art. 27, comma 2). Di fatto, ciò che abilita l’impresa non è il rilascio della patente, ma la presentazione della domanda. 

Fa eccezione l’ipotesi di una eventuale “diversa comunicazione notificata” dall’INL; regola tutta da chiarire, implicando un potere ostativo di INL all’esercizio di attività di impresa, per il quale non potrà non esserci una disciplina a dir poco rigorosa. 

Altrettanto rigorosa disciplina dovrà essere prevista per il sindacato (amministrativo e giurisdizionale) del provvedimento finale dell’INL sulla domanda di patente; di certo non si tratta di un atto di polizia giudiziaria “non connotato da alcuna discrezionalità, neppure tecnica, ed emesso sotto la direzione funzionale dell’autorità giudiziaria” che ne esclude l’impugnabilità. 

6. I crediti. La decurtazione come nuova sanzione che si aggiunge a quelle esistenti.

Una sanzione automatica

Il Decreto Legge assegna ad ogni patente una dotazione iniziale di trenta crediti, esposta a possibili decurtazioni che fanno venire meno l’abilitazione quando si scende sotto la soglia minima di almeno quindici crediti. 

Sul sistema di attribuzione dei crediti, sul numero degli stessi, sulle modalità di decurtazione o di recupero, è inevitabile attendere la conversione in legge.

Quello che già ora si può dire è che la decurtazione dei punti è, a tutti gli effetti, una sanzione per l’impresa o il lavoratore autonomo: una sanzione nuova per natura, presupposti e disciplina, ma sicuramente una sanzione; inoltre, una sanzione che si aggiunge a tutte le altre che l’ordinamento già prevede, e che non vengono toccate (né menzionate) dal nuovo art. 27. 

E’ una sanzione che si applica, nel testo attuale, in maniera automatica: ciascuna tipologia di violazioni ha una sua sanzione predeterminata dalla legge; l’autorità che emana il provvedimento definitivo non ha  nessun potere, per quanto è dato capire, né sull’an della decurtazione (se irrogarla o meno) né sul quantum (non ci sono criteri di graduazione  o di proporzionalità rispetto al caso concreto). 

In sostanza, l’autorità che emana il provvedimento ha soltanto una funzione di registrazione del dato numerico, che va indicato all’interno del provvedimento medesimo: “ciascun provvedimento riporta i crediti decurtati” (comma 5); dopodichè ha una funzione di trasmissione: “l’amministrazione che ha formato gli atti e i provvedimenti definitivi…ne dà notizia, entro trenta giorni dalla notifica ai destinatari, anche alla competente sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, la quale procede entro trenta giorni dalla comunicazione alla decurtazione dei crediti” (comma 6).  

La decurtazione opera come conseguenza automatica della emanazione dei provvedimenti definitivi, ma produce i suoi effetti soltanto per effetto di un apposito provvedimento da parte della competente sede territoriale dell’INL, verosimilmente riconnesso alla gestione del portale di cui al comma 9 (sarà da capire come si produrrà poi in concreto l’effetto ostativo allo svolgimento dell’attività lavorativa).

L’automatismo della decurtazione e la gravità degli effetti che produce rendono fondamentale l’esame delle circostanze, che secondo il D.L. n. 19/2024 comportano la perdita di crediti: nello specifico, quali sono le violazioni punite e quali sono i provvedimenti che producono il loro effetto sulla patente. 

La decurtazione per accertamento di violazioni

Le decurtazioni dei crediti sono “correlate alle risultanze degli accertamenti e dei conseguenti provvedimenti definitivi” aventi ad oggetto le violazioni, il cui elenco suddiviso per gruppi è contenuto nel comma 4 del nuovo art. 27, ciascuno con la sua quota di crediti sottratti 

Il primo caso è “l’accertamento delle violazioni di cui all’Allegato I” (dieci crediti): sono le violazioni che determinano il provvedimento interdittivo previsto dall’art. 14 del Decreto 81.  

Il secondo caso è “l’accertamento delle violazioni che espongono i lavoratori ai rischi indicati nell’Allegato XI” (sette crediti). A differenza del precedente, si tratta di una sorta di contenitore aperto, che ruota intorno al concetto di esposizione al rischio prima ancora che alla violazione in sé; è legittimo il dubbio sulla mancanza di tassatività della norma, come pure sulle difficoltà di coordinamento con le violazioni di cui al caso precedente, sicuramente sovrapponibili in numerose ipotesi. 

Il terzo caso è dato dai “provvedimenti sanzionatori” di cui all’art. 3 del D.L. n. 12/2002 convertito in Legge n. 73/2002 (cinque crediti). Si tratta dell’impiego di lavoratori subordinati senza preventiva comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato (questa violazione è oggetto anche di altra disposizione di questo stesso D.L., il comma 3 dell’art. 29, con cui è stata aggravata la misura della sanzione). Qui non si parla di accertamento di violazioni, ma direttamente di sanzioni. Non è comunque una fattispecie omogenea alle altre per tipologia di violazione.

Quello che si può osservare è che per tutte le tre categorie di violazioni, l’ordinamento già prevede specifiche conseguenze sanzionatorie (ivi compresi effetti di sospensione delle attività) e specifici procedimenti per l’irrogazione delle stesse; ancora più rilevante appare il fatto, che esistono specifici procedimenti per la regolarizzazione delle violazioni contestate. Il Decreto Legge non regola in alcun modo il doppio binario che si determina tra il procedimento che sanziona la violazione ed il procedimento di decurtazione dei punti. 

La decurtazione per accertamento di responsabilità per infortunio sul luogo di lavoro.

Altra ipotesi di decurtazione ricorre quando si verifica un infortunio – non si menziona la malattia professionale – “sul luogo di lavoro” (così testualmente la norma).

In questo caso la misura della decurtazione non è correlata alla violazione sottostante, bensì all’evento infortunio in sé, anzi più specificamente alle conseguenze dell’evento sulla persona del lavoratore: dai venti crediti in caso di morte si scende ai quindici in caso di inabilità permanente e infine ai dieci in caso di inabilità temporanea assoluta per più di quaranta giorni (condizione per la perseguibilità d’ufficio).

Presupposto della decurtazione è l’accertamento della responsabilità per l’infortunio; la norma parla di “riconoscimento della responsabilità datoriale”, e quindi alla lettera soltanto del datore di lavoro, mentre nel primo periodo del comma 4 i provvedimenti considerati sono quelli “emanati nei confronti dei datori di lavoro, dirigenti o preposti”; è un altro esempio di una tecnica legislativa incerta. 

I provvedimenti che causano la decurtazione dei crediti

Come si è visto, le decurtazioni dei crediti sono “correlate alle risultanze degli accertamenti e dei conseguenti provvedimenti definitivi”

Quali siano i provvedimenti, la norma non lo dice; dovrebbe trattarsi tanto di provvedimenti amministrativi quanto giurisdizionali; quanto al giudice, potrebbe non essere necessariamente quello penale (l’accertamento di una responsabilità datoriale in caso di infortunio potrebbe ben essere oggetto di sentenza del giudice civile o del lavoro). 

La definitività

Se un tema è la natura del provvedimento e la individuazione del soggetto emanante, il tema davvero centrale riguarda la definitività del provvedimento. 

Trattasi di requisito che appare a dir poco indispensabile, se solo si considera l’effetto espulsivo dal mercato che i provvedimenti in questione implicano, e ulteriormente se si considera che si tratta di una conseguenza automatica, sottratta perfino al potere dell’autorità che emana il provvedimento.

Rinviando a futuro esame tempi, modi e condizioni della definitività dei provvedimenti rispetto a ciascuna delle ipotesi di violazione, fin da subito si pone la questione, se nei provvedimenti definitivi vadano inclusi anche quei provvedimenti che, proprio rispetto alle violazioni catalogate nel nuovo art. 27, concludono il procedimento per effetto di regolarizzazione della violazione contestata e con accesso a forme sanzionatorie di natura premiale. Introdotti anche con specifica finalità di  deflazione del contenzioso, tali sono, tipicamente, i provvedimenti che concludono la procedura di prescrizione e ottemperanza del Decreto 758/94 o la procedura di diffida del Decreto 124/04 o la procedura di sospensione dell’attività lavorativa di cui all’art. 14 del Decreto 81/08 quando si provvede a regolarizzazione e revoca del provvedimento di sospensione. In relazione all’effetto ostativo al rilascio del DURC delle violazioni indicate nell’Allegato A al D.M. Lavoro 30.1.2025, l’art. 8 comma 3 dello stesso D.M. lo esclude in caso di ottemperanza alla prescrizione o alla diffida con estinzione del reato (ed anche in caso di oblazione ex art. 162 e 162-bis c.p.), e davvero non pare possibile giungere qui a conclusioni diverse; vero è però che nel D.L. n. 19/2024 manca una disposizione analoga. Laddove si volesse vedere in tali provvedimenti premiali un qualche riconoscimento implicito di responsabilità e quindi fossero considerati provvedimenti di “accertamento della violazione”, quindi rilevanti ai fini della qualificazione delle imprese (più precisamente, ai fini della decurtazione dei crediti delle loro patenti), l’effetto sulla sopravvivenza stessa di tali strumenti potrebbe essere enorme. 

Gli effetti della dotazione inferiore alla soglia minima.

Come si è visto, la dotazione sotto i quindici crediti non consente l’esercizio di attività di impresa nei cantieri.

Le modalità con cui si produrrà, in concreto, l’effetto ostativo saranno da vedere; nel frattempo il comma 8 prevede una sorta di clausola di salvaguardia rispetto alla immediatezza di tali effetti ostativi, perché fa salvo “il completamento delle attività oggetto di appalto o subappalto in corso al momento dell’ultima decurtazione dei crediti”. Non è specificato a chi spetterebbe autorizzare tale completamento; deve presumersi che sia un potere ancora una volta dell’INL.

La norma necessita di chiarimento sulla atecnica locuzione “attività”, se si tratti cioè di lavorazione, di fase della esecuzione dell’opera, di oggetto del contratto stipulato; per dare la risposta occorrerebbe comprendere la ratio della norma, che appare poco coerente con il sistema.

Sicuramente il comma 8 riecheggia il comma 4 dell’art. 14 del Decreto 81, che consente il posticipo di efficacia della sospensione ex art. 14 “dalla cessazione dell’attività lavorativa in corso che non può essere interrotta”; tuttavia, aldilà della ben maggiore specificazione di quest’ultima norma, è da capire in quali termini la salvezza del completamento delle attività sia compatibile con la sospensione della patente. La sospensione ex art. 14 infatti è un provvedimento interdittivo comunque temporaneo, con ragioni di tutela immediata dei lavoratori rispetto alle violazioni accertate, che sospende la “parte dell’attività imprenditoriale interessata dalle violazioni”. La sospensione della patente è invece uno strumento di qualificazione del mercato (sia pure in negativo, attraverso l’espulsione da esso, e non in positivo attraverso la valorizzazione delle imprese virtuose); sicchè per un verso il D.L. sancisce che un’impresa con meno di quindici crediti non può rimanere nel mercato,  per il verso opposto però si concede che, almeno per un po’, quella stessa impresa continui il suo lavoro. 

La sospensione “cautelativa” della patente in caso di morte o inabilità permanente.

Il possesso della patente, fintantochè i crediti sono almeno quindici, consente alle imprese ed ai lavoratori autonomi di operare nei cantieri, indipendentemente da qualsiasi circostanza. 

Esiste tuttavia una eccezione rilevantissima a questa regola.

Secondo il comma 5 del nuovo art. 27, in caso di infortunio da cui sia derivata la morte o una inabilità al lavoro assoluta o parziale, la competente sede territoriale dell’INL “può sospendere, in via cautelativa, la patente fino a un massimo di dodici mesi”.

Si tratta, a nostro avviso, di una delle norme più problematiche dell’intero Decreto, a maggior ragione considerando che criteri, procedure e termini del provvedimento che dispone la sospensione saranno determinati dallo stesso INL.

Il primo aspetto da considerare di questo potere dell’INL riguarda il suo presupposto fattuale: in attesa dei contenuti che potrà avere la disciplina attuativa, il dato normativo dice che il verificarsi di un infortunio con morte o inabilità permanente può essere da solo sufficiente per decretare la sospensione della patente e quindi la impossibilità di un’impresa o di un lavoratore autonomo a lavorare. Non serve un provvedimento a monte per quanto provvisorio; non è necessario neanche che sia ravvisata o anche solo ipotizzata una responsabilità; tantomeno serve che l’infortunio venga ricondotto ad una qualsiasi violazione della normativa, anche solo contestata; per la sospensione è sufficiente il fatto storico dell’infortunio.

Il secondo aspetto che contraddistingue questo potere di sospensione cautelativa riguarda il fattore temporale. Il richiamo alla finalità “cautelativa” e la natura stessa di misura eccezionale rispetto alla sospensione ordinaria rivelano l’intento di collocare questa sospensione della patente in un momento ravvicinato rispetto all’evento, come una sorta di prima risposta all’accaduto. Ora, questa immediatezza temporale appare poco compatibile con l’ipotesi di infortunio che determini inabilità permanente, la quale presuppone una valutazione medico-legale necessariamente all’esito di un decorso clinico; ed è sicuramente da escludere che possa bastare una mera prognosi preventiva di inabilità, sia perché la norma riguarda infortuni “da cui sia derivata” l’inabilità, sia perché non può certo pensarsi che la norma abbia inteso attribuire all’INL una sorta di ruolo di preventiva autorità medico-legale al solo fine di sospendere la patente. Ben diverso però è il discorso in caso di infortunio mortale (quello probabilmente cui davvero pensava chi ha scritto la norma), dove non c’è nessun limite all’immediato esercizio del potere da parte dell’INL. Il solo baluardo è rappresentato dal requisito della finalità “cautelativa”, all’interno di un onere motivazionale che necessariamente dovrà concretizzarsi in qualcosa di più del tautologico riferimento all’evento appena accaduto.

Quanto agli effetti, la sospensione ha per oggetto la patente, cioè vieta, a chi la subisce, di operare in tutto e per tutto. Nessuna comparazione è possibile quindi, neanche in questo caso, con il potere di sospensione dell’attività attribuito dall’art. 14 del Decreto 81/08 al medesimo INL (oltre che ai servizi ispettivi delle ASL, qui ignorati): come detto sopra, quel potere presuppone la contestazione di una violazione,  e poi si tratta di sospensione limitata alla parte dell’attività imprenditoriale interessata dalla violazione e la norma non vuole fermare l’attività in toto (tanto che alla irregolarità dell’unico occupato dell’impresa non segue la sospensione); inoltre quella sospensione è comunque suscettibile di revoca tramite regolarizzazione della fattispecie, mentre la sospensione cautelativa della patente può arrivare fino a dodici mesi, sempre ed esclusivamente a discrezione della sede INL, ed allo stato non prevede nessun meccanismo di revoca.

Rimane del tutto indeterminato, in tale generalissimo potere di sospensione “cautelativa”, anche chi possa essere il destinatario del provvedimento interdittivo: la norma non fa nessun riferimento solo al datore di lavoro, sicchè potrebbe essere sospesa l’impresa affidataria per infortunio del lavoratore in subappalto, o altre imprese o altri lavoratori autonomi comunque operanti nello stesso cantiere, oppure tutti. 

L’ultima annotazione è legata sempre al profilo soggettivo: la sospensione cautelativa non potrà mai colpire le imprese ed i lavoratori autonomi che sono dotati di attestazione SOA. Il motivo è semplice: manca, in questo caso, la patente da sospendere.

7. Le vicende dei crediti

La reintegrazione dei crediti e l’incremento dei crediti. 

“I crediti decurtati possono essere reintegrati” (comma 7) tramite frequenza di corsi di formazione (non necessariamente specifici per il reintegro, a quanto pare, essendoci un rinvio generale ai corsi “di cui all’articolo 37, comma 7”). Ancora una volta non è il caso di entrare nel merito specifico del sistema di recupero dei crediti , del loro numero, delle procedure, fino a che non sarà convertita la norma.

La norma prevede anche un meccanismo di incremento dei crediti, uno per anno fino ad un massimo di dieci; questo incremento però è riconosciuto soltanto “trascorsi due anni dalla notifica degli atti e dei provvedimenti di cui ai commi 4 e 5”, richiede la preventiva trasmissione all’INL di copia dell’attestato di frequenza a un corso di recupero dei crediti, e spetta soltanto a condizione che il beneficiario non sia stato destinatario “di ulteriori atti o provvedimenti di cui ai commi 4 e 5”

Sembrerebbe dunque che l’incremento automatico dei crediti in virtù del decorso del tempo sia riconosciuto soltanto a chi sia incorso in uno dei casi di decurtazione, e non per i soggetti “virtuosi”; in sostanza, si tratterebbe di un’altra modalità di recupero dei crediti persi, e non di crediti-premio per coloro che non subiscono accertamenti di violazioni. Lo confermerebbe la circostanza, che i crediti recuperabili possono essere al massimo quindici, computo in cui vanno compresi tutti “i crediti riacquistati ai sensi del presente comma”, quindi sia quelli da corsi di recupero sia quelli annuali (a meno che “riacquistati” non si riferisca solo ai corsi).

Urge chiarezza e anche semplificazione.

I crediti per adozione di Modelli 231.

Ancora diversa fattispecie è quella prevista nell’ultimo periodo del comma 7, che sembrerebbe riconoscere cinque crediti aggiuntivi per le imprese che adottano “modelli di organizzazione e di gestione di cui all’art. 30”, cioè modelli con efficacia esimente ai sensi del D.Lgs. n. 231/01. Diciamo “sembrerebbe” perché viene previsto che il punteggio è “inoltre” incrementato, configurando cioè l’incremento come un meccanismo che si affianca alle misure previste nelle parti precedenti del comma 7, che riguardano solo i soggetti che hanno ricevuto atti e provvedimenti di decurtazione. Il dubbio poi è se anche questi cinque crediti concorrono al raggiungimento dei quindici che rappresentano il massimo dei crediti riacquistabili “ai sensi del presente comma”.

Si tratterebbe in sostanza di una sorta di self cleaning rispetto a pregresse violazioni, più che di una norma premiale per chi è dotato di MOG e cioè di una vera norma di “qualificazione”. 

8. Le sanzioni

Ai sensi del nuovo art. 27 comma 1, il possesso della patente è un obbligo per le imprese ed i lavoratori autonomi che operano nei cantieri; ai sensi del comma 8 secondo periodo, operare “privi della patente” comporta (i) una sanzione amministrativa da euro 6.000,00 a euro 12.000,00  non regolarizzabile con il pagamento agevolato dell’art. 301-bis; (ii) l’esclusione dalla partecipazione ai lavori pubblici per sei mesi (la norma riguarda ovviamente soltanto chi esegue lavori fino a 150.000 euro senza SOA; se c’è la SOA, non è configurabile l’illecito di attività senza patente perché non serve la patente).

Il medesimo regime sanzionatorio si applica a chi opera con una patente con meno di quindici punti, equiparando in sostanza ai fini sanzionatori chi perde più di quindici punti a chi non ha mai chiesto la patente.

Non esiste una sanzione specifica per chi opera in regime di patente sospesa in via cautelativa.

Il quadro sanzionatorio, tuttavia, non si esaurisce qui; l’assenza dei requisiti abilitanti potrà rilevare sotto innumerevoli profili, siano di essi di natura penale, civile, amministrativa, non solo in caso di ispezioni o di eventi infortunistici, ma anche ai fini della validità dei contratti stipulati o in generale della liceità stessa dell’esercizio di attività di impresa.

Il che conduce ad esaminare l’altro ambito in cui la patente a crediti impatta in maniera formidabile, che è quello della committenza e, più in generale, della organizzazione dei cantieri e della gestione degli appalti: tema che il legislatore ha affrontato con la modifica delle regole sulla verifica delle imprese e dei lavoratori autonomi da parte dei committenti pubblici e privati.

10. I committenti: la modifica dell’art. 90, comma 9 e dell’art. 157, comma 1, lettera c)

Nuovi obblighi per il committente: verificare la patente e la SOA

Il committente di cantieri, cioè il soggetto che affida l’esecuzione di lavori edili o di genio civile di cui all’Allegato X del Decreto 81/08, ha un nuovo obbligo: “verifica il possesso della patente di cui all’articolo 27 nei confronti delle imprese esecutrici o dei lavoratori autonomi, anche nei casi di subappalto, ovvero, per le imprese che non sono tenute al possesso della patente ai sensi del comma 8 del medesimo art. 27, dell’attestato di qualificazione SOA” (nuovo art. 90, comma 9, lettera b-bis).

La violazione dell’obbligo è punita dal nuovo art. 157 comma 1 lettera c) “con la sanzione amministrativa pecuniaria da 711,92 a 2.562,91 euro”

L’obbligo non sostituisce la verifica di idoneità tecnico-professionale di cui all’art. 90, comma 9 lettera a) effettuata secondo l’Allegato XVII: questa norma rimane invariata.

Si tratta dunque di un obbligo aggiuntivo: oltre che i documenti dell’Allegato XVII, il committente deve chiedere anche la patente a crediti o la attestazione SOA, posto che l’impresa o il lavoratore autonomo necessariamente devono possedere o l’una o l’altra.

In forza di questa sommatoria di obblighi, il committente deve verificare che esistano i requisiti sostanziali che comprovano l’idoneità a fini di sicurezza di una impresa o di un lavoratore autonomo (Allegato XVII); però poi deve verificare anche il possesso di un requisito formale, la patente o la SOA.

Per i committenti privati la novità è assoluta: è nuovo dover richiedere la patente a crediti, che non esisteva; è nuovo dover richiedere la SOA, che era strumento tipico dei cantieri pubblici ma che ora diventa invece strumento “ordinario” anche per i cantieri privati.

Per i committenti pubblici la novità riguarda tutti gli affidamenti di lavori per i quali la SOA non è necessaria ai sensi del Codice dei Contratti Pubblici, perché necessariamente il committente deve richiedere la patente a crediti. Per tutti i cantieri in cui la SOA era e rimane requisito per l’affidamento in base al Codice dei Contratti Pubblici, non cambia nulla sul piano materiale dei documenti da acquisire; la differenza è rappresentata dal fatto che la eventuale mancanza di SOA non viola soltanto la normativa sugli appalti pubblici, ma  configura un nuovo illecito che colpisce chi nella stazione appaltante  è il committente, cioè la violazione dell’art. 90 comma 9 lettera b-bis): ovviamente la criticità investe in generale tutto il cantiere, stante la presenza di un operatore privo di abilitazione ai fini della sicurezza.

La verifica dei subappaltatori

I nuovi obblighi valgono per il committente “anche nei casi di subappalto”: vale a dire che il committente deve verificare direttamente patente o SOA anche dei subappaltatori (nozione restrittiva, rispetto al più generale novero dei sub-affidatari che includono naturalmente tante altre soluzioni contrattuali).

L’obbligo è coerente con la disciplina dettata dall’art. 90 comma 9 lettera a) del Decreto 81, che impone al committente di provvedere alla verifica di itp sia nei confronti dell’impresa affidataria che di tutte le imprese esecutrici e lavoratori autonomi. Coerentemente, anche la verifica del possesso della patente deve essere svolto rispetto a tutti i livelli della filiera; anzi, ciò si spiega a maggior ragione per uno strumento come la patente, che almeno negli intenti mira proprio ad un migliore controllo della filiera degli appalti. 

La verifica da parte dell’impresa affidataria

Il riferimento ai subappaltatori pone la questione, se la verifica del possesso della patente debba essere svolto anche dall’affidataria nei confronti dei propri sub-affidatari.

L’art. 90 non ne fa cenno, ma è una norma che non riguarda l’affidataria: gli obblighi di questa sono contenuti nell’art. 97, il cui comma 2 in particolare prevede l’obbligo di verifica dell’itp dei subaffidatari tramite un rimando all’art. 26 e salvo specificare che le modalità non sono quelle dell’art. 26 comma 1 lettera a) ma sono quelle dell’Allegato XVII.

Non avere previsto la verifica della patente da parte dell’impresa affidataria è verosimilmente una lacuna da correggere, non essendo ragionevole un sistema che esonera dall’obbligo di verificare la qualificazione dei propri subaffidatari proprio l’impresa che ha ruolo centrale nella filiera del cantiere, cioè appunto l’affidataria. D’altra parte, anche in mancanza di una specifica contravvenzione, difficilmente potrebbe ritenersi priva di conseguenze la condotta di un’impresa affidataria che introducesse in cantiere un proprio subappaltatore privo di un requisito abilitante, quale è la patente.

11. Gli effetti sull’art. 26, comma 1, lettera a).

Secondo l’art. 26 comma 1 lettera a), il committente che affida lavori “intra-aziendali” deve eseguire la verifica di itp delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi richiedendo visura camerale e autocertificazione, ma solo fino alla data di entrata in vigore “del decreto di cui all’art. 6 comma 8 lettera g)”: vale a dire, il decreto destinato a dare attuazione al sistema di qualificazione di cui all’art. 27. In sostanza, nel disegno dell’art. 26, una volta introdotto un sistema di qualificazione, questo dovrebbe valere anche ai fini della verifica di itp.

Ora, se è vero che il D.L. n. 19/2024 non menziona affatto l’art. 6 comma 8 lettera g), ed anzi come si è visto lo ha sostanzialmente rimosso dall’ordinamento, è altrettanto vero che la patente a crediti  costituisce, almeno per i lavori edili, il sistema di qualificazione di cui all’art. 27; e l’art. 6 comma 8 lettera g) doveva, appunto, dettare i criteri per quel sistema. E’ lecito quindi concludere che, nella sostanza, la patente a crediti rappresenta quel sistema di qualificazione il cui avvento avrebbe dovuto significare la fine della verifica di itp tramite visura e autocertificazione.

Se si dà prevalenza al fatto che i lavori edili rendono il luogo un cantiere, si applicano le regole del cantiere (quelle secondo cui verifica di itp e verifica della patente si sommano); se si dà prevalenza al fatto che i lavori si svolgono all’interno dell’azienda, si applicano le regole dell’appalto intra-aziendale (e quindi la verifica di itp coincide con la verifica della patente).

Poiché non appare ragionevole che la patente operi in maniera diversa per un cantiere a seconda che sia o non sia “intra-aziendale”, a noi pare logico concludere che, ai fini della qualificazione e della verifica di itp, le regole dell’art. 90 comma 9 (e cioè la sommatoria delle due verifiche) vale per tutti i cantieri edili, ivi compresi quelli “intra-aziendali” formalmente riconducibili anche all’art. 26.

Però la scelta del legislatore mostra due cose: da un lato, rivela una sottovalutazione dell’art. 27, norma di sistema molto più di quanto il D.L. mostri di considerarla; dall’altro lato, sembra la conferma che della patente a crediti si è voluto esaltare, almeno per ora, la valenza punitiva piuttosto che una efficacia qualificatoria cui nemmeno il legislatore sembra davvero credere, visto che rimane in vigore l’obbligo di verifica della idoneità tecnico-professionale.

12. La sicurezza è organizzazione. La patente è organizzazione, o è solo sanzione? 

Al netto delle innumerevoli e vistose criticità, la patente a crediti presenta un indiscutibile profilo di novità. 

L’introduzione di un requisito formale abilitante, quale è la patente, può avere un impatto molto importante sugli appalti; sugli appalti, prima ancora che sui cantieri.

La distinzione è qui voluta, per rimarcare come non si tratti solo di prevenzione nei luoghi “fisici” del lavoro, ma anche se non soprattutto di organizzazione, di gestione, di adeguato approfondimento degli aspetti contrattuali, organizzativi e procedurali.

Sia per i committenti, sia per le imprese affidatarie, sia per le altre figure dell’appalto, la patente pone in luce, con la sua sola esistenza, la centralità delle scelte organizzative; enfatizza la necessità di prefigurare fin da subito come sarà il cantiere; di individuarne i protagonisti; di mettere a punto i livelli della filiera. Inoltre, essendo un requisito che deve essere mantenuto nel tempo, e come tale nel tempo va verificato, incide sulla gestione; e poi ancora, sui contenuti dei contratti che regolano i rapporti tra le parti.

E’ questo il senso ultimo della patente che, a nostro avviso, deve essere valorizzato.

L’auspicio è che vengano superate, in sede di conversione del D.L. n. 19/2024, non soltanto le numerose imperfezioni tecniche e incertezze letterali, ma anche e soprattutto i meccanismi sommari ed autoreferenziali che esso introduce, incoerenti non soltanto con i principi fondamentali dell’ordinamento, ma con le stesse regole della sicurezza e salute nei luoghi di lavoro.

Arriva la certificazione della parità di genere con vantaggi economici e incentivi. Cos’è, come si fa, chi ne può beneficiare.

L’art. 46-bis della legge n. 162 del 5 novembre 2021 ha introdotto la “Certificazione della parità di genere” all’interno del Codice delle Pari Opportunità. Con l’adozione dei provvedimenti attuativi, ora i datori di lavoro (tutti) possono certificare le loro organizzazioni, attestando le politiche e le pratiche aziendali con cui concorrono a ridurre il divario di genere. E l’ordinamento li premia con sconti sui contributi previdenziali, punteggi premiali nei progetti finanziati, maggiori punteggi negli appalti pubblici.

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1. La parità di genere: un principio fondamentale, un motore di crescita, un obiettivo da incentivare

La parità di genere tra uomini e donne è oramai universalmente riconosciuta, anche sul piano istituzionale e normativo, come un principio fondante della vita democratica e insieme uno straordinario motore di crescita e uno dei capisaldi più rilevanti e urgenti dell’agenda di sviluppo sostenibile e progresso dei Paesi. E’ uno dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, è oggetto della Strategia Gender Equality 2020-2025 dell’Unione Europea, per la prima volta ha dato origine ad una Strategia Nazionale per la Parità di Genere all’interno dell’ordinamento italiano (quinquennio 2021-2026) secondo cinque priorità (Lavoro, Reddito, Competenze, Tempo, Potere), ciascuna contraddistinta da indicatori e valori target da raggiungere.

Nel PNRR la parità di genere rappresenta una delle tre priorità trasversali in termini di inclusione sociale, unitamente a Giovani e Mezzogiorno.

Proprio in ambito di appalti finanziati con le risorse del PNRR il legislatore aveva dato recentemente un forte segnale, rafforzando presenza e funzione del Rapporto sulla situazione del personale previsto dall’art. 46 del Codice delle Pari Opportunità, introducendo l’obbligo di una relazione di genere sul personale da presentare dopo la conclusione dell’appalto, e poi ancora introducendo requisiti necessari nonché meccanismi premiali e benefici per promuovere una maggiore partecipazione di donne (e di giovani) al mercato del lavoro.

In particolare, secondo l’art. 47 del D.L. n. 77/21 le stazioni appaltanti devono prevedere come requisito necessario dell’offerta l’obbligo di assicurare all’occupazione femminile e giovanile almeno il 30% delle assunzioni necessarie all’esecuzione del contratto, e possono prevedere punteggi aggiuntivi in sede di valutazione dell’offerta dell’operatore economico che si impegni ad assumere donne e giovani oltre la soglia minima del 30%, che utilizzi specifici strumenti di conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro per i propri dipendenti, che nell’ultimo triennio abbia rispettato i principi della parità di genere e adottato specifiche misure per promuovere le pari opportunità di genere, anche tenendo conto dei livelli retributivi e del conferimento di incarichi.

Dopodichè, l’azione del Legislatore e del Governo, volta ad incentivare la parità di genere con meccanismi premiali per gli operatori economici – la c.d. premialità di parità – non si è fermata al PNRR.

2. La Certificazione della parità di genere: cos’è e come si ottiene

Con una previsione di carattere generale, che riguarda tutti i datori di lavoro indistintamente, l’art. 4 della legge n. 162 del 5 novembre 2021 ha introdotto all’interno del Codice delle Pari Opportunità l’art. 46-bis che regola la “Certificazione della parità di genere”.

Si tratta di una vera e propria certificazione, volta ad attestare le politiche e le pratiche aziendali adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità.

Lo strumento dunque è innovativo, quanto all’oggetto e al fine per cui viene introdotto; ma al tempo stesso è uno strumento già noto e sperimentato in altri ambiti, il che può renderne a maggior ragione interessante – oltre che più agevole sul piano dell’esperienza concreta – l’attuazione e il conseguimento.

In cosa consiste la certificazione? Come si può ottenere?

La legge n. 162/2021, integrata dall’art. 1 comma 147 della Legge n. 234/2021, ha demandato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri l’individuazione dei parametri minimi per il conseguimento della certificazione, e il Ministro per le Pari Opportunità e la Famiglia a ciò delegato ha provveduto con il Decreto del 29 aprile 2022, che è stato infine recentemente pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 152 del 1 luglio 2022.

Il Decreto a sua volta recepisce i contenuti della Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022, una prassi (non una norma nazionale) risultato di un apposito Tavolo di lavoro istituito presso il Consiglio dei Ministri e coordinato dal Dipartimento per le Pari Opportunità.

A questa Prassi occorre dunque guardare, per definire il percorso che conduce alla Certificazione di parità di genere.

La Prassi UNI/PdR 125:2022 è denominata «Linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere che prevede l’adozione di specifici KPI (Key Performance Indicator – indicatori chiave di prestazione) inerenti alle politiche di parità di genere nelle organizzazioni».

Essa ha come obiettivo l’individuazione di virtuose pratiche aziendali di parità di genere e la regolamentazione dell’accesso alla certificazione; come dice la sua stessa denominazione, il sistema opera attraverso la definizione di una serie di indicatori di risultato, qualitativi e quantitativi, in relazione a sei Aree di valutazione.

Ogni Area ha un peso percentuale con cui si misurano il livello dell’organizzazione e poi gli stati di avanzamento nel tempo; per ciascuna Area sono identificati dei KPI (indicatori di prestazione) che misurano “il grado di maturità dell’organizzazione”.

Gli indicatori sono di natura quantitativa (delta % rispetto a un valore aziendale o nazionale o per tipo di attività-codice ATECO) e qualitativa (presenza o non presenza); ogni indicatore è associato ad un punteggio il cui raggiungimento viene ponderato per il peso dell’Area di appartenenza.

Le organizzazioni che raggiungono un punteggio minimo complessivo del 60% hanno accesso alla certificazione, che viene rilasciata da organismi di valutazione accreditati ai sensi del Regolamento (CE) n. 765/2008, i quali operano secondo regole di certificazione, acquisizione di documenti, audit dedicati.

Di seguito qualche esempio di indicatori nelle sei aree di valutazione:

  • Cultura e strategia (peso 15%): implementazione di un piano strategico per un ambiente di lavoro inclusivo (20 punti); interventi formativi sulla differenza di genere (10 punti);
  • Governance (peso 15%): definizione nella governance dell’organizzazione di un presidio sulle tematiche di genere (25 punti); presenza di esponenti del sesso meno rappresentato nell’organo amministrativo (20 punti);
  • Processi HR (peso 10%): gestione di processi di gestione e sviluppo delle risorse umane a favore dell’inclusione (25 punti); presenza di referenti e prassi aziendali a tutela dell’ambiente di lavoro in riferimento a molestie e a mobbing (10 punti);
  • Opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda (peso 20%): percentuale di donne con qualifica di dirigente (25 punti);
  • Equità remunerativa per genere (peso 20%): percentuale di differenza retributiva per medesimo livello (40 punti); percentuale promozioni donne su base annua (30 punti);
  • Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro (peso 20%): presenza di servizi dedicati al rientro post maternità/paternità (20 punti); presenza di servizi per favorire la conciliazione dei tempi di vita personale e lavorativa (35 punti).

3. La Certificazione della parità di genere: chi la può ottenere

La certificazione è uno strumento di applicazione generale, aperto all’intera platea dei datori di lavoro senza distinzioni: come recita la UNI/PdR, la certificazione può essere richiesta “da qualunque tipo di organizzazione, di qualsiasi dimensione e forma giuridica, operante nel settore pubblico o privato”. Sono escluse (solo) “le Partite IVA che non hanno dipendenti e/o addetti”.

E’ interessante sottolineare che, per rendere effettiva questa possibilità di accesso, la PdR classifica le organizzazioni in quattro fasce/cluster, suddivisi per numero di addetti: Micro (1-9); Piccola (10- 49); Media (50-249); Grande (250 e oltre).

Nella definizione dei set di indicatori, sono previste delle semplificazioni per gli appartenenti alle prime due fasce, cui alcuni indicatori non si applicano o si applicano con criteri meno rigorosi (ad esempio, la crescita nella percentuale di donne nell’organizzazione si calcola rispetto ai valori aziendali storici e non rispetto al valore medio della industry di appartenenza).

In questo modo, anche le organizzazioni meno strutturate o anche solo di più ridotte dimensioni possono accedere ai benefici della certificazione.

Va ricordato, da ultimo, che esistono anche alcune circostanze ostative al conseguimento della certificazione, tali da vietarne il riconoscimento pure se siano raggiunti i punteggi minimi richiesti. In particolare, il d.lgs. n. 105/2022 prevede un vero e proprio “impedimento” alla certificazione se risulti nei due anni precedenti alla richiesta il rifiuto, l’opposizione o l’ostacolo alla fruizione dei diritti relativi a congedo di maternità e paternità o per eventi e cause particolari, congedo parentale, permessi e riposi per disabilità.

4. La Certificazione della parità di genere: benefici, vantaggi, incentivi

La UNI/PdR 125:2022 (paragrafo “Obiettivi e strumenti”) ricorda che “il sistema economico funziona per incentivi”. Il meccanismo di premialità è un elemento centrale nella costruzione del sistema di certificazione di parità.

Non a caso, la “Premialità di parità” è stata già prevista fin dalla legge introduttiva della Certificazione, in particolare dall’art. 5 della legge n. 162/2021, che prevede in favore delle aziende private le agevolazioni e gli incentivi come di seguito elencati:

• (per l’anno 2022 e nel limite di 50 milioni di euro) è concesso un esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali in misura non superiore all’1% e nel limite massimo di 50.000 euro annui per ciascuna azienda; la legge espressamente prevede che l’esonero potrà essere previsto anche per gli anni successivi, previa emanazione di provvedimento legislativo che stanzi le occorrenti risorse finanziarie;

• per le aziende private che, alla data del 31 dicembre dell’anno precedente a quello di riferimento, siano in possesso della certificazione della parità di genere è riconosciuto un punteggio premiale per la valutazione, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, di proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti;

• le amministrazioni aggiudicatrici adottano criteri premiali nella valutazione delle offerte per servizi, forniture, lavori e opere.

Dando seguito a tale ultima previsione, il legislatore (D.L. n. 36/2022) è intervenuto direttamente anche sul testo del Codice dei Contratti Pubblici, modificando l’art. 93 e l’art. 95 e prevedendo

  • una riduzione del 30% dell’importo della garanzia per la partecipazione a gare pubbliche;
  • l’indicazione da parte delle amministrazioni aggiudicatrici , nei bandi, avvisi e inviti, di maggiori punteggi per le offerte caratterizzate da politiche per la parità di genere “comprovata dal possesso di certificazione della parità di genere”.

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I preposti e la vigilanza aziendale: cambia la sicurezza sul lavoro

La recentissima riforma del Decreto 81/08 modifica profondamente le regole della vigilanza aziendale.
Cambiano gli obblighi del preposto,  ma soprattutto viene richiesto alle aziende di intervenire sull’organizzazione e sulla formazione, con effetti sugli organigrammi ed anche sui contratti di lavoro. In questa scheda sono approfondite le novità e le misure da adottare.

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La mini-riforma della sicurezza sul lavoro (Legge n. 215/2021, artt. 13 e 13-bis). La nuova disciplina del preposto.

La legge 17 dicembre 2021 n. 215 ha convertito in legge il D.L. n. 146/2021, il cui Capo III (artt. 13 e 13-bis) è dedicato a misure per il rafforzamento della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. In sede di conversione sono state apportate profonde modifiche alla disciplina degli articoli 18, 19, 26 e 37 del Decreto 81/08 in tema di vigilanza e di preposto. Oltre a riscrivere in maniera più netta gli obblighi del preposto, la riforma rafforza la presenza di questa figura nell’organigramma con effetti sull’intero sistema di sicurezza aziendale, sull’assetto dell’attività di vigilanza, sul contenuto dei contratti di lavoro.

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  1. La riforma degli artt. 18, 19, 26 e 37: nuove regole per i preposti

La Legge n. 215/2021 di conversione del D.L. n. 146/2021 ha modificato, tra gli altri, gli articoli 18, 19, 26 e 37 del Decreto 81/08 in materia di preposto.

E’ una modifica passata un po’ in sordina, forse per il maggior clamore suscitato dalla riforma dell’art. 14 del Decreto 81/08 sulla sospensione dell’attività imprenditoriale e dalla riconfigurazione del ruolo dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, forse perché sembra contenere soltanto il dettaglio di principi già noti; in realtà le nuove disposizioni, oltre a richiedere un necessario aggiornamento anche formale dei documenti di sicurezza aziendali, lasciano trasparire una nuova prospettiva nell’approccio al tema della vigilanza che potrebbe rivelarsi assai impattante sui tradizionali assetti normativi della sicurezza sul lavoro.

Vediamo innanzitutto le novità.

Art. 18

Nel nuovo art. 18, all’elenco degli obblighi di datore di lavoro e dirigente è stata aggiunta al comma 1 la lettera b-bis), che: 

– impone  di “individuare il preposto o i preposti per l’effettuazione delle attività di vigilanza di cui all’art. 19”; 

– dispone che “i contratti e gli accordi collettivi di lavoro possono stabilire l’emolumento spettante al preposto per lo svolgimento delle attività di cui al precedente periodo”; 

– infine sancisce che “il preposto non può subire pregiudizio alcuno a causa dello svolgimento della propria attività”.

Art. 19

E’ stata riformata la lettera a) dell’art. 19: è confermata la prima parte, secondo cui il preposto deve sovrintendere e vigilare che i lavoratori rispettino le disposizioni ricevute, cambia la seconda parte e cioè l’obbligo di fare che nasce dall’esercizio della vigilanza: 

“in caso di rilevazione di non conformità comportamentali in ordine alle disposizioni e istruzioni impartite dal datore di lavoro e dirigenti ai fini della protezione collettiva e individuale, intervenire per modificare il comportamento non conforme fornendo le necessarie indicazioni di sicurezza”; 

– in via ulteriore, “in caso di mancata attuazione delle disposizioni impartite o di persistenza della inosservanza, interrompere l’attività del lavoratore e informare i superiori diretti”.

E’ nuova anche la lettera f-bis dell’art. 19: il preposto deve 

“in caso di rilevazione di deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e di ogni condizione di pericolo rilevata durante la vigilanza, se necessario, interrompere temporaneamente l’attività e, comunque, segnalare tempestivamente al datore di lavoro e al dirigente le non conformità rilevate”.

Art. 26

All’articolo 26 viene aggiunto il comma 8-bis: 

“Nell’ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto o subappalto, i datori di lavoro appaltatori o subappaltatori devono indicare espressamente al datore di lavoro committente il personale che svolge la funzione di preposto”.

Art. 37

Confermato l’obbligo di formazione dei preposti di cui al comma 7, viene aggiunto un nuovo comma 7-ter:

“Per assicurare l’adeguatezza e la specificità della formazione nonché l’aggiornamento periodico dei preposti ai sensi del comma 7, le relative attività formative devono essere svolte interamente con modalità in presenza e devono essere ripetute con cadenza almeno biennale e comunque ogni qualvolta sia reso necessario in ragione dell’evoluzione dei rischi o all’insorgenza di nuovi rischi.”

Art. 55

Cambia il quadro sanzionatorio per il datore di lavoro: 

la sanzione già prevista dal comma 5 lettera c) per la violazione dell’obbligo di formazione di cui al comma 7 dell’art. 37 viene estesa anche al comma 7-ter; 

viene modificato il comma 5 lettera d) introducendo la nuova e diversa sanzione dell’arresto da due a quattro mesi o ammenda da 1.500 a 6.000 euro, la quale viene estesa alla violazione dell’obbligo di individuazione del preposto, riferito sia all’art. 18 comma 1 lettera b-bis sia all’art. 26 comma 8-bis.

Art. 56

Infine, anche per il preposto cambiano le sanzioni:

la sanzione del comma 1 lettera a), già prevista per la violazione dell’art. 19 lettera a) rimane confermata, ma ora si applica anche alla violazione della lettera f-bis.

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Provando a sistematizzare le modifiche, si osserva che il legislatore si è mosso lungo tre direttrici di intervento, poste a diversi livelli.

Una prima direttrice di intervento riguarda il livello operativo e mira a dettagliare il contenuto concreto degli obblighi del preposto con il chiaro obiettivo di renderli più effettivi ed anche più efficaci in termini di risultato. Le altre due direttrici di intervento riguardano la struttura del sistema di sicurezza aziendale: la prima interessa la governance del sistema e la definizione dei ruoli aziendali, e consiste in misure finalizzate a garantire un organigramma rispondente alle esigenze della vigilanza; la seconda interessa il livello organizzativo e mira ad assicurare al preposto, nel momento in cui lo si coinvolge maggiormente, le condizioni per poter svolgere il proprio ruolo. 

2. I “nuovi” obblighi del preposto

2.1. La vigilanza sui lavoratori e gli obblighi in caso di “non conformità comportamentali”

La prima parte della nuova lettera a) dell’art. 18 rimane invariata e conferma il primo ed essenziale obbligo del preposto, quello che connota la figura: sovrintendere e vigilare sull’osservanza di obblighi di legge, disposizioni aziendali, uso dei mezzi di protezione e dpi da parte dei singoli lavoratori. 

Invece cambia completamente la seconda parte della nuova lettera a), dove il legislatore stabilisce cosa deve accadere quando il preposto accerta situazioni di inosservanza.

Innanzitutto, questo generale concetto di “inosservanza” viene sostituito dalla nuova nozione di “non conformità comportamentale”: formula linguistica che porta direttamente al tema della condotta del lavoratore, da cui il legislatore manifestamente pretende e si attende la “conformità comportamentale”.

Le violazioni riconducibili alla condotta personale del lavoratore vengono in questo modo distinte, e sottoposte ad un diverso regime di vigilanza, rispetto alle violazioni che hanno invece natura tecnico-organizzativa che sono collocate in un’altra e diversa lettera dell’art. 19: la lettera f-bis). 

La seconda novità della revisionata lettera a) è che in reazione alla “non conformità comportamentale” il legislatore disegna in capo al preposto una sequenza ben precisa e soprattutto vincolata di obblighi specificamente individuati, cadenzati secondo un predeterminato flusso procedimentale. 

Nel previgente sistema, l’obbligo di sovrintendere e vigilare non prevedeva una esplicita azione del preposto verso il lavoratore, ma un obbligo in qualche modo sottinteso: il fatto che l’obbligo di informare i superiori sorgesse in caso di “persistenza” della inosservanza lasciava presupporre un intervento del preposto rimasto senza successo, ma la norma non dettava un obbligo esplicito, e soprattutto non dettava in alcun modo il contenuto dell’azione che il preposto doveva porre in essere. 

Ora invece è prescritto un flusso di azioni ben preciso: 1) fornire al lavoratore le indicazioni di sicurezza per modificare il comportamento non conforme; 2) se non basta, interrompere l’attività e 3) informare i superiori diretti. 

Il preposto ha dunque l’esplicito obbligo di porre in essere almeno tre azioni correttive, scandite in due diverse fasi: una azione nella prima fase, due azioni nella seconda fase. In questo intervento correttivo si concretizzano a un tempo il “potere gerarchico” che sostanzia la definizione di preposto e la sua funzione di “garanzia”.

La prima azione correttiva è una azione diretta di informazione sulla persona del lavoratore, con la specifica finalità di modificare il comportamento non conforme. 

La seconda e la terza azione correttiva vanno compiute se la prima non raggiunge il risultato, e sono da compiere cumulativamente e non in alternativa: l’una è rivolta anch’essa direttamente al lavoratore e consiste nell’interrompere la sua attività; l’altra ha una finalità correttiva nei confronti del sistema, e consiste nell’informare i superiori. 

Tutte le azioni correttive sono dovute e non discrezionali (con l’annotazione che anche la lettera f-bis prevede l’interruzione dell’attività, ma solo “se necessario”). 

Ciò che appare interessante è che, da un assetto di obblighi così disegnato, sembra potersi desumere un momento in cui la condotta non corretta del lavoratore si trasforma da non conformità comportamentale del singolo in “prassi non corretta”: è il momento in cui il preposto, accertata la non conformità, non dà al lavoratore le informazioni necessarie ovvero, persistendo la non conformità nonostante l’informazione data, egli non interrompe quell’attività e non informa i superiori. La tolleranza o comunque il non intervento del preposto rispetto ad una condotta rilevata, attribuiscono a quella condotta individuale errata del lavoratore, che di per sé potrebbe essere occasionale e non conosciuta, la natura di “prassi aziendale”, intesa come violazione che esce dalla sfera soggettiva del suo autore per entrare in una sfera oggettiva, che è quella del sistema aziendale; entra in gioco infatti quantomeno la sfera di imputabilità anche di altro soggetto, che di quella condotta illecita non è l’autore, ma che rispetto ad essa ha obblighi di garanzia, cioè appunto il preposto.

L’ulteriore adempimento imposto dalla norma, cioè l’informazione ai superiori, a sua volta concorre a rafforzare la natura  “aziendale” della prassi scorretta, in un crescendo che conduce, man mano che la conoscenza della non conformità e della sua mancata correzione si diffonde verso l’apice dell’organizzazione, fino al datore di lavoro.

Vero è che la scelta legislativa, di scomporre esplicitamente gli obblighi in diversi livelli di intervento, enfatizza la diversità delle posizioni di garanzia, contraddistinte da livelli diversi di “immediatezza” rispetto alla condotta non conforme e quindi da livelli diversi di potere impeditivo. E’ questo uno degli aspetti della riforma che dovrebbe produrre il maggiore impatto sul regime delle responsabilità, rispetto ad una situazione attuale in cui l’esistenza di comportamenti scorretti viene molto spesso automaticamente imputata al datore di lavoro come omessa vigilanza senza dare attenzione all’esistenza dei livelli gerarchici intermedi. In sostanza, la scansione degli obblighi valorizza anche a livello normativo il tema della “contiguità” della posizione di garanzia rispetto al luogo in cui la violazione è commessa e/o rispetto all’attività lavorativa interessata dalla violazione: tema che è stato oggetto di alcune sentenze della Suprema Corte (Cass. Pen., sez. IV, n. 12137/2021; n. 20833/2019; n. 13838/2015; per il profilo temporale cfr. Cass. Pen., sez. IV, n. 1096/2021) con cui è stata manifestata, da parte della giurisprudenza più attenta, l’esigenza di evitare responsabilità legate alla mera titolarità della posizione di garanzia, anziché ad una effettiva condotta illecita colpevole.

2.2. La vigilanza sui lavoratori e gli obblighi in caso di “deficienze di mezzi, attrezzature, o comunque condizioni di pericolo”

Un diverso aspetto della vigilanza è disciplinato dalla nuova lettera f-bis), e riguarda il caso in cui il preposto rileva deficienze di mezzi, attrezzature, o comunque condizioni di pericolo.

Si tratta di profili di contenuto tecnico-organizzativo, non legati alla condotta non conforme del singolo lavoratore rispetto alle regole ricevute.

In questi casi, l’obbligo del preposto è di interrompere “temporaneamente” l’attività, ma solo “se necessario”, e segnalare le condizioni di pericolo al datore di lavoro e al dirigente.

Qui viene interrotta non l’attività “del lavoratore”, cioè solo del singolo lavoratore che non segue le regole di comportamento insegnate (come nella lettera a): qui si interrompe l’attività in generale, con il che si deve intendere non l’intera attività aziendale, ma quella attività che è interessata dalla deficienza dei mezzi e delle attrezzature, o quella attività che viene svolta in una condizione di pericolo. Potrebbe trattarsi anche qui di una attività di un singolo lavoratore, che ad esempio sta usando una attrezzatura non sicura; ma potrebbe anche trattarsi di una intera linea di lavorazione, e certo potrebbe essere perfino una interruzione totale almeno nei casi più eclatanti.

Il flusso delle azioni del preposto è il seguente: 1) vigilare se ci sono deficienze di mezzi, attrezzature, condizioni di pericolo; 2) se ci sono, valutare se è necessario interrompere l’attività; 3) se sì, interrompere l’attività;  4) in ogni caso, segnalare al datore di lavoro e al dirigente.

La nuova lettera f-bis) è molto simile nei contenuti a quelli di altri obblighi già esistenti e confermati, in particolare quelli della lettera f) e della lettera e), con i quali sarebbe stato probabilmente auspicabile un maggiore coordinamento.

La lettera f), in particolare, è in buona parte sovrapponibile alla nuova lettera f-bis) anche testualmente. La differenza è che la lettera f-bis) riguarda le carenze “rilevate durante la vigilanza” e non (come nella lettera f) “della quale venga a conoscenza sulla base della formazione ricevuta”. Il legislatore sembra voler enfatizzare l’importanza della funzione di vigilanza e la sua obbligatorietà, rispetto ad una più generica “conoscenza”; comunque la nuova formula sembra comprendere la vecchia, perché rilevare le carenze include ovviamente l’esserne venuti a conoscenza e presuppone la formazione ricevuta. La questione che si pone è piuttosto se la norma vada intesa nel senso che il preposto deve rilevare queste violazioni, o invece nel senso che il preposto deve agire solo se la deficienza sia stata rilevata. Nella prima ipotesi, in caso di deficienza accertata in sede ispettiva, il preposto risponde della violazione della lettera f-bis per il solo fatto che la deficienza c’è. Nella seconda ipotesi, non c’è violazione se il preposto non se ne è accorto; c’è invece violazione se il preposto non è intervenuto pur essendone consapevole; occorre cioè dimostrare che il preposto aveva rilevato la deficienza ma era rimasto inerte. E’ evidente, ai fini di una sanzione ma soprattutto in caso di infortunio, il diverso impatto che può avere, sulla responsabilità del preposto, l’una o l’altra interpretazione in presenza di una carenza tecnica che l’ispettore ex post ritenga rilevabile (ma che magari non lo era in maniera eclatante ex ante).

Un coordinamento migliore era probabilmente auspicabile anche rispetto all’obbligo della lettera e), che in caso di pericolo “grave ed immediato” imponeva al preposto di “astenersi” dal far “riprendere” l’attività, ma non attribuiva al preposto un esplicito potere/dovere di interruzione. 

In ogni caso, ciò che rileva è che ora, in caso di deficienza tecnica rilevata, la lettera f-bis) pone in capo al preposto un dovere esplicito di valutare la necessità o meno di una interruzione anche solo temporanea, e non più di limitarsi a segnalare la carenza ai superiori. 

L’interruzione dell’attività non è automatica, perchè occorre una valutazione del preposto sulla “necessità” della interruzione. Ma cosa significa “se necessario”? 

E’ ragionevole ritenere che vada applicato anche qui il criterio del “pericolo grave ed immediato”, che attraversa tutto l’art. 19 e che in ogni caso costituisce principio ispiratore nella contrapposizione degli interessi in gioco. E’ peraltro evidente l’impatto che la decisione di interrompere o di proseguire l’attività possono avere sul preposto, in caso di incidente futuro causato da una condizione di pericolo da lui rilevata, ma non ritenuta sufficiente a giustificare una interruzione dell’attività.

L’interruzione in ogni caso non esaurisce gli obblighi del preposto, che ha comunque un dovere di segnalazione ai superiori: attività quest’ultima che in una prospettiva di sistema assume ancora una volta una rilevanza centrale, al fine di stabilire se la disfunzione sia qualificabile come “aziendale” e imputabile ai livelli apicali, o sia invece una disfunzione “operativa” da imputare ai livelli esecutivi.

Peraltro, poiché nella lettera f-bis) non si tratta di comportamenti dei lavoratori ma di circostanze oggettive, il coinvolgimento dei ruoli apicali appare in questa fattispecie, rispetto alla lettera a), più agevole da dimostrare perché si sta discutendo di aspetti strutturali o comunque legati alla dotazione o alla organizzazione aziendale; anzi, proprio la natura del presupposto pone l’esigenza di ampliare l’attenzione a tutti i soggetti del sistema di sicurezza aziendale che della deficienza tecnica o organizzativa avrebbero potuto/dovuto accorgersi, ivi compreso il Servizio di Prevenzione e Protezione. 

Naturalmente, per tale Servizio e per il RSPP diventa fondamentale la questione, se il Servizio sia stato portato a conoscenza della circostanza (o dal preposto direttamente, o dai superiori da quello informati); così come è fondamentale distinguere le fattispecie in cui la deficienza o la condizione di pericolo siano riconducibili a carenze della valutazione del rischio, da quelle fatte oggetto di adeguata valutazione del rischio (e magari addirittura di segnalazione specifica da parte del RSPP) ma non debitamente gestite dall’organizzazione.

3. La nuova governance aziendale. L’obbligo di individuazione del preposto o dei preposti

3.1 L’obbligo formale di individuazione

La riforma pone a carico del datore di lavoro un obbligo specifico ed esplicito di individuazione del preposto o dei preposti per l’effettuazione dell’attività di vigilanza.

Per cogliere il significato di questo obbligo, non si può non considerare che datore di lavoro/dirigente/preposto costituiscono da sempre le posizioni di garanzia tipiche del sistema di sicurezza disegnato dal legislatore nazionale (cfr. anche l’art. 299  del Decreto 81/08) e che la definizione di preposto – inteso come soggetto contraddistinto da una posizione di sovraordinazione gerarchica e funzionale che soddisfa i requisiti di cui all’art. 2, comma 1, lettera f) del Decreto 81/08 e come tale è titolare di un potere/dovere di garanzia a titolo originario – è rimasta assolutamente identica con la riforma.

La nuova disciplina non mette dunque in discussione il fatto che il preposto è, all’interno dell’organizzazione, un soggetto che esercita un potere gerarchico e funzionale su altri lavoratori: né mette in discussione il principio secondo cui l’obbligo di vigilanza è la conseguenza di quei poteri, senza i quali non potrebbe esservi posizione di garanzia. 

D’altro canto, la posizione di garanzia, come recita appunto l’art. 299 del Decreto 81/08 oltre che da sempre la giurisprudenza, prescinde da una “investitura formale” e manca a volte di una esplicitazione all’esterno. 

E’ in questa prospettiva che va letto, a nostro avviso, il riferimento del legislatore ad una  individuazione, da intendere come azione con la quale si mette in evidenza, si porta all’attenzione, si formalizza, ciò che è già presente ma potrebbe non essere esplicito: azione ben diversa dalla nomina, cioè dalla attribuzione ad un soggetto di una qualifica e di un ruolo che senza l’atto formale quel soggetto non avrebbe.

Non appare possibile, a nostro avviso, ritenere che la riforma abbia voluto individuare una figura del tutto nuova di preposto, inteso non come soggetto titolare di un ruolo sovraordinato agli altri lavoratori con poteri gerarchici e funzionali nell’esercizio dell’attività lavorativa, bensì come soggetto affidatario di una attività di vigilanza intesa come vera e propria mansione lavorativa da attribuire con un atto dedicato. Non si tratterebbe di un preposto, ma di un vigilante o controllore che dir si voglia: nozione evidentemente diversa, e che nei contenuti sia letterali che sistematici della riforma non è dato rinvenire. 

La novità della riforma sta invece nel fatto che, introducendo l’obbligo di individuazione, si sancisce il principio per cui in ogni organizzazione la presenza del preposto dovrà d’ora in poi essere anche formalizzata e resa nota, attraverso un atto/provvedimento/documento formale da cui si evinca quali sono in azienda i preposti. 

Il che significa – conseguenza non banale – che la mancanza di un tale atto/provvedimento/documento formale è sufficiente per applicare nei confronti del contravventore la sanzione amministrativa di euro 1.500,00 mediante prescrizione ai sensi del Decreto n. 758/1994 (un quarto del massimo dell’ammenda di euro 6.000,00 prevista dal nuovo art. 55, comma 5 lettera d).

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“Individuare” il preposto, peraltro, non significa necessariamente redigere un atto con il quale un soggetto, individuante, comunica ad un altro soggetto, individuato, che quest’ultimo è un preposto; non significa neppure redigere una lista intitolata “Individuazione preposti”.

Certo questi possono essere alcuni dei modi per assolvere l’obbligo; ma non sono certo gli unici, né sarebbe condivisibile una interpretazione formalistica che pretendesse di trovare un documento di questo tipo, magari disinteressandosi della effettiva organizzazione aziendale e della effettiva esistenza di preposti individuati.

“Individuare” significa piuttosto porre in essere una azione, il cui risultato finale sia quello di esplicitare che un lavoratore è, in quella organizzazione, un preposto: significa accompagnare un nome ad una posizione. 

Non si deve dunque ricercare un “atto di individuazione” inteso come atto individuale; può esserci ma non è essenziale; l’obbligo deve intendersi adempiuto, tutte le volte che nel sistema aziendale vi sono documenti o atti di qualsiasi natura aventi rilevanza esterna, dai quali si possa evincere con certezza che taluni soggetti ricoprono in azienda un ruolo di preposto. 

Può trattarsi dell’organigramma, del funzionigramma, del mansionario, delle job descriptions; può trattarsi del Sistema di Gestione della Sicurezza o del Modello Organizzativo; può trattarsi perfino dell’elenco degli iscritti al corso di formazione specifica per preposti. Proprio l’adempimento dell’obbligo formativo in favore dei preposti, già esistente nell’ordinamento da anni, costituisce lo strumento attraverso il quale l’individuazione di essi è già stata compiuta da tutte le organizzazioni che quell’obbligo hanno assolto; sicchè la necessità di una individuazione si pone semmai nei confronti delle organizzazioni che i preposti ad oggi non li hanno ancora formati. 

Ciò che conta è che l’informazione sia esplicitata.

Non è neppure necessario, che l’atto di individuazione o il documento aziendale affidino formalmente al preposto l’incarico di svolgere l’attività di vigilanza: l’obbligo di vigilanza continua a rimanere, per il preposto, un obbligo connaturato alla funzione, obbligo che deriva a titolo originario dal fatto di essere preposto e non dal conferimento di una delega apposita. 

Il fatto che il legislatore parli di “individuazione” e non di “nomina” è un indice inequivoco in questo senso; e ciò implica un’altra considerazione assolutamente fondamentale, e cioè che la individuazione del preposto non richiede una accettazione del preposto individuato, né consente un rifiuto o una rinuncia.

L’individuazione dei preposti, in ultima analisi, non è altro che una fotografia dell’organizzazione così come essa è ed opera; ha una finalità dichiarativa ed informativa, non una finalità costitutiva.

Perché allora, si potrebbe obiettare, il legislatore ha prescritto uno specifico obbligo di individuazione del preposto, se in realtà questo non significa “creare” un preposto là dove non esisteva?

La risposta sta nel fatto che l’individuazione, ben lungi dall’essere fine a se stessa, è momento propedeutico e indispensabile per l’assolvimento degli obblighi ulteriori previsti dalla riforma, e alla fine per l’esistenza stessa di un sistema di vigilanza.

Senza l’individuazione, il datore di lavoro non può procedere alla formazione specifica del preposto né alla eventuale erogazione di un emolumento apposito; ma l’individuazione agevola anche l’esercizio delle azioni correttive perché concorre alla chiarezza dei ruoli nei reparti. Più in generale, attraverso l’opera di individuazione l’organizzazione è costretta a fare i conti con la propria stessa struttura, a valutarne l’adeguatezza o le carenze. 

Nel momento in cui il legislatore ha inteso rafforzare la vigilanza, ed ha deciso che per farlo era necessario rafforzare il ruolo del preposto, ha fatto in modo che nelle organizzazioni questo ruolo uscisse dall’ombra e dall’incertezza.

3.2 L’individuazione del preposto “o dei preposti”. 

La norma prevede l’obbligo di individuare il preposto o “i preposti”.

Non viene specificato il numero e neppure vengono posti limiti minimi o soglie massime; ciò è da condividere, perché quanti sono i preposti all’interno di una organizzazione dipende dalla dimensione, composizione e struttura di ogni organizzazione.

Non appare possibile, tanto considerato, che venga contestata la violazione dell’obbligo sotto il profilo – ad esempio – di un numero di preposti non adeguato alle dimensioni aziendali, o alla distribuzione delle funzioni; si tratterebbe di una inammissibile interferenza dell’organo ispettivo – e/o del Giudice – nell’autonomia organizzativa e imprenditoriale del datore di lavoro.

Ciò su cui l’organizzazione deve, piuttosto, porre l’attenzione è la adeguatezza del numero dei preposti rispetto alle finalità sostanziali perseguite dalla norma, che sono quelle di assicurare (come recita appunto la lettera b-bis) “l’effettuazione dell’attività di vigilanza”; e come si è visto, ora l’attività di vigilanza si concretizza nell’assolvimento degli obblighi e nell’esercizio delle azioni che il nuovo art. 19 scandisce in  maniera molto puntuale e che comportano, anche dal punto di vista formale e della registrazione degli adempimenti (anche solo a fini di prova) rinnovata attenzione.

3.3 Le organizzazioni senza preposto: la vigilanza del datore di lavoro e i lavori in solitudine.

La previsione di un esplicito obbligo di individuazione “del preposto” rinnova, sotto nuova prospettiva, sia la tematica della vigilanza espletata dal datore di lavoro in assenza di preposti, sia la tematica del lavoratore in solitudine.

Ci si deve domandare infatti se la nuova lettera b-bis) dell’art. 18 possa essere intesa, nel senso di imporre al datore di lavoro di individuare comunque almeno un preposto, sempre ed in ogni organizzazione.

Ci sono moltissime organizzazioni di modesta dimensione, in cui la vigilanza è svolta direttamente dal datore di lavoro in quanto presente sul luogo di lavoro, e nelle quali pertanto un preposto non è presente. Esse rappresentano notoriamente la maggioranza o comunque una percentuale elevatissima delle organizzazioni esistenti sul territorio nazionale. 

La norma a nostro avviso non può essere letta nel senso di imporre la necessaria presenza di almeno un preposto in ogni organizzazione.

Non ci sono elementi letterali per sostenere questa conclusione; soprattutto non ci sono elementi sostanziali, perché l’art. 18 interviene su un profilo di natura organizzativa volto a rendere formale ciò che è nella sostanza delle aziende, ma non interviene –  né potrebbe – a modificare quella sostanza; del resto, la definizione di preposto di cui alla lettera f) dell’art. 2 del Decreto 81/08 rimane immutata, ed è una nozione basata su un principio di effettività che riconduce direttamente ed esclusivamente alla struttura produttiva delle organizzazioni.

In sostanza, la norma non può essere letta nel senso di imporre al datore di lavoro di attribuire ad almeno uno dei propri lavoratori un ruolo di sovraordinazione sugli altri; non può essere intesa nel senso di imporgli di creare un capo-reparto o un capo-squadra là dove non c’è e dove il datore di lavoro non ha mai ritenuto necessario che ci sia.

Si deve ritenere pertanto che il datore di lavoro possa continuare a svolgere “in proprio” la funzione di vigilanza, in attuazione dell’obbligo (non modificato) di cui all’art. 18; se un lavoratore sovraordinato agli altri non c’è, potrà continuare a non esserci.

Naturalmente, vale anche per queste micro-organizzazioni l’obbligo di individuazione formale del preposto, là dove questa figura esista nei fatti; inoltre, e soprattutto, è necessario per queste micro-organizzazioni (per il datore di lavoro) attuare l’obbligo di vigilanza con accresciuto rigore, conformemente alla stretta imposta dal legislatore alla disciplina.

Coerenza di sistema impone, infatti, di ritenere che il datore di lavoro che esercita in proprio la vigilanza sia chiamato ad assicurare un livello di controllo almeno pari a quello che il preposto è tenuto a svolgere ai sensi delle rinnovate lettere a) e f-bis) dell’art. 19; in sostanza, il datore di lavoro dovrà assicurare personalmente l’assolvimento di tutte le azioni di vigilanza, di intervento e di correzione ivi così dettagliatamente elencate.

Un ultimo e diverso profilo riguarda invece i lavoratori in solitudine, rispetto ai quali la tematica si ripropone tutto sommato con le medesime caratteristiche che già aveva prima della riforma, posto che le norme non possono imporre un determinato assetto organizzativo e non appare possibile  leggere la riforma come l’introduzione di un divieto di lavoro in solitudine; anche in questo caso, nondimeno, il presupposto della “solitudine” da un lato ed i requisiti del lavoratore solitario dall’altro andranno analizzati con accresciuto rigore dal punto di vista organizzativo, coerentemente con l’accresciuto rigore che il legislatore ha imposto alla disciplina della vigilanza.

4. Il preposto come soggetto “qualificato”. Le condizioni per l’esercizio della funzione

In una riforma (quella degli articoli 18 e 19) finalizzata a garantire la “effettività della vigilanza”, il legislatore ha ritenuto necessario puntare sul preposto come snodo fondamentale del sistema: gli obblighi sono stati resi più espliciti (e quindi meno giustificabile la loro omissione) in termini di presupposto e di contenuto delle azioni da porre in essere; le azioni del preposto sono più impattanti per l’organizzazione, da un lato incidendo sull’operatività immediata, dall’altro sollecitando i livelli superiori in maniera più formalizzata e più incisiva; le responsabilità non sono più le stesse di prima.

Questo rinnovato ruolo del preposto ha reso necessario riconsiderare la figura all’interno del sistema aziendale, ed in questa prospettiva si collocano le ulteriori modifiche introdotte dalla legge n. 215/2021, che incidono su quelli che possiamo definire come i requisiti caratterizzanti di una figura “qualificata” rispondente al nome di preposto.

Il primo di questi profili riguarda la formazione del preposto.

L’assolvimento dei rinnovati obblighi presuppone un adeguato patrimonio di competenze e di conoscenza sia delle regole di sicurezza in generale, sia dei processi aziendali, sia delle peculiarità che contraddistinguono figura, attività ed obblighi del preposto. 

A questo scopo viene rafforzato un obbligo già esistente, e cioè l’obbligo di formazione del preposto: il comma 7-ter dell’art. 37 ribadisce i principi noti di adeguatezza e specificità della formazione, nonché l’obbligo dell’aggiornamento periodico, ma impone la modalità della formazione “interamente” in presenza e la cadenza almeno biennale e comunque in ogni circostanza di evoluzione dei rischi o insorgenza di nuovi rischi; al nuovo obbligo corrisponde una nuova specifica sanzione. 

La ratio della norma è evidente: la vigilanza dell’art 19 presuppone la capacità del preposto di individuare le non conformità comportamentali così come le deficienze tecniche e le condizioni di pericolo, di dare al lavoratore informazione diretta delle giuste manovre, di valutare la necessità o meno di interruzione di una attività, di trasmettere ai superiori le segnalazioni necessarie.

Tutto questo può aversi soltanto con una adeguata formazione, che sarà formazione sulle macchine e attrezzature specificamente presenti ed utilizzate là dove opera quel preposto, sulle procedure lavorative ivi attuate; ma anche formazione sugli obblighi e sulle responsabilità; e ancora, formazione sui comportamenti e sugli insegnamenti da dare. 

Il legislatore ha scelto di farlo tramite una formazione per il preposto “diversa” dalle altri formazioni, quanto a modalità e tempistiche. A prescindere da ogni criticità di merito (ad esempio, le modalità di calcolo del termine “biennale”), non si può non vedere in questa scelta quantomeno una perplessità del legislatore sulla reale efficacia della formazione così come fino ad oggi concepita. Considerata la portata dell’argomento, la sola cosa che si può fare in queste brevi note è rilevare come, ancora una volta, affrontare il tema della vigilanza, e cioè della sicurezza praticata in concreto, renda inevitabile una riflessione generale sul fondamentale tema della formazione.

Il secondo intervento legislativo di questo contesto è quello economico, e consiste nel prevedere la possibilità di riconoscere al preposto, tramite lo strumento della contrattazione collettiva, un emolumento per lo svolgimento delle attività di vigilanza di cui all’art. 19.

Il punto appare delicato, dal punto di vista della configurazione giuridica della posizione di garanzia.

Come si è visto, esigenze di effettività della vigilanza hanno indotto il legislatore ad imporre una formale individuazione dei preposti.

Ma, come pure si è visto, l’individuazione non consiste in una nomina, né nel conferimento di una delega e/o di un potere derivato, bensì nella formalizzazione di un ruolo che deriva al preposto in ragione della posizione di supremazia concretamente rivestita nell’organizzazione: “il preposto, come il datore di lavoro e il dirigente, è individuato direttamente dalla legge e dalla giurisprudenza come soggetto cui competono poteri originari e specifici” e risponde “a titolo diretto e personale” (cfr. Cass. Pen., sez. IV, n. 25836/2019).

Da tanto discende che il riconoscimento di un emolumento economico al preposto “per lo svolgimento dell’attività di vigilanza” può essere concepito soltanto come trattamento economico aggiuntivo (laddove la contrattazione collettiva lo prevederà) che consegue automaticamente alla circostanza oggettiva di copertura del ruolo di preposto; in sostanza, la nuova lettera b-bis dell’art. 18 è un invito alle parti sociali a valorizzare economicamente il ruolo e la funzione del preposto come categoria di lavoratore, e non la previsione di un compenso da riconoscere come soggetto individuale.

Ciò che si vuol dire è che l’effettuazione dell’attività di vigilanza non può essere considerata, per il solo fatto che è ora suscettibile di un emolumento economico dedicato, come una mansione aggiuntiva che il lavoratore può accettare o rifiutare, accettando quindi o rifiutando la corrispondente quota di retribuzione. 

Come è da sempre nel sistema normativo nazionale in materia di sicurezza sul lavoro, la funzione di preposto non è oggetto di negoziazione e l’attività di vigilanza non è oggetto di accettazione: il preposto è tale quando riveste un ruolo aziendale che lo rende un soggetto sovraordinato ad altri (ed ora la riforma impone di individuarlo espressamente), e come preposto ha l’obbligo normativo ed originario di eseguire la vigilanza (ed ora la riforma consente alle parti sociali di riconoscergli un emolumento).

Ciò che ora accade è che il fatto di essere destinatario di un obbligo normativo dà diritto al preposto (se le parti sociali lo decideranno) di avere una somma di denaro, che diventa una sorta di “premio” per il fatto di avere quell’obbligo.

Il legislatore ha stretto le maglie nei confronti del preposto; ma trattandosi di un lavoratore e non di un soggetto apicale, ha evidentemente ritenuto opportuno accompagnare questa stretta con una contropartita economica.

Si tratta, in sostanza, di una posizione di garanzia che diventa in qualche misura “a pagamento”; ma proprio perché non è un vero e proprio corrispettivo, la decisione non solo sul quanto, ma anche sul se erogare l’emolumento è stata rimessa alle parti sociali.

Ovviamente, non sarà possibile per il datore di lavoro assoggettato al contratto collettivo non corrispondere l’emolumento a tutti i propri preposti; per contro il preposto che non si vedesse riconosciuto l’emolumento sancito dalla contrattazione collettiva, avrà naturalmente diritto di agire per ottenerne in via coattiva il pagamento. Appare da escludere, però, la possibilità per il preposto di omettere la vigilanza in caso di mancata erogazione: questo perché l’obbligo, come detto, è e rimane obbligo normativo a titolo originario.

Infine, la nuova condizione che la riforma riconosce al preposto è un diritto di protezione contro i pregiudizi che potrebbe subire a causa dello svolgimento della propria attività.

E’ una norma che testualmente riecheggia l’art. 31 comma 2 del Decreto 81/08 a tutela del Responsabile e degli Addetti al Servizio di Prevenzione e Protezione e che appare volta a prevenire l’adozione, da parte del datore di lavoro e del dirigente (ma in generale da parte dell’intera organizzazione, compresi i lavoratori vigilati) di condotte volte a dissuadere il preposto dal compimento dei suoi obblighi, o a punirlo per averli adempiuti. Va osservato peraltro che il legislatore non ha usato in questa sede le formule di tutela particolarmente rigorose utilizzate, ad esempio, nella disciplina di protezione del whistleblower di cui all’art. 6 del Decreto 231/2001.

Di certo il legislatore mostra di voler fare del preposto, in maniera definitiva e inequivoca, uno strumento di controllo dell’organizzazione dall’interno, e di lotta alle prassi aziendali scorrette; è una posizione di antitesi rispetto a quella del datore di lavoro, o del dirigente, o financo dei lavoratori che volessero praticare prassi scorrette per comodità o per altri fini. 

Il legislatore ci dice che la vigilanza è una parte fondamentale del sistema, e ci dice che il preposto è il cardine dell’azione di vigilanza; per questo motivo l’organizzazione deve fare quanto necessario – e quanto ora espressamente imposto dalla norma – per metterlo in condizione di lavorare al suo meglio.

5. Esiste ancora il preposto “di fatto”?

Una considerazione finale riguarda le conseguenze profonde della riforma.

Il preposto è sempre stato considerato, dalla tradizionale lettura giurisprudenziale, una figura “anche di fatto”: il preposto è tale in ragione dei poteri che esercita, indipendentemente da una investitura formale, e in questo senso è stato scritto l’art. 299 del Decreto 81/08 che ha recepito decenni di sentenze in questo senso.

Si può anzi dire che il preposto è la figura paradigmatica del principio di effettività, incarnando nella maniera più esemplare la veste della posizione di garanzia che è tale per i poteri che esercita, indipendentemente da una investitura formale.

Si diventa preposti nel momento in cui si viene assegnati al ruolo di caposquadra, capocantiere, responsabile di reparto, e così via: oppure perfino quando, senza assumere formalmente alcun ruolo sovraordinato, la sovraordinazione viene comunque esercitata nei fatti.

Questa natura “fattuale” in realtà ha cominciato ad affievolirsi con l’introduzione dell’obbligo di formazione del preposto di cui all’art. 37 del Decreto 81: formare un preposto presuppone di averlo riconosciuto come tale, e pertanto l’individuazione del preposto è divenuta (per quanto indirettamente) una necessità, nel momento in cui si è dovuto effettuarne la formazione. 

Però la situazione era sempre rimasta per così dire a metà del guado; tanto che non sono mancate le sentenza di condanna del preposto di fatto pur non sottoposto alla dovuta formazione, già solo per avere intrapreso l’attività pur non avendo le conoscenze necessarie (cfr. Cass. Pen., sez. IV, n. 18090/2017).

Ora la riforma della figura del preposto spinge ulteriormente nel senso della sua qualificazione e della sua manifestazione formale; il che rende inevitabile domandarsi, se possa ancora esistere il preposto come posizione di garanzia “di fatto”.

Se il datore di lavoro ha un obbligo esplicito di individuare i preposti, può essere considerato preposto (e quindi destinatario dei relativi obblighi) un soggetto che non è stato individuato come tale?

Se il preposto deve ricevere una adeguata formazione, addirittura speciale rispetto alle altre, può qualificarsi preposto un soggetto che non ne è stato destinatario (e che non ha dunque i requisiti che la norma ritiene necessari per svolgere la funzione)?

A noi pare che, se il preposto viene individuato come tale, ma poi il datore di lavoro non assolve agli obblighi conseguenti, non si tratti di un preposto di fatto: si tratta di un preposto individuato, rispetto al quale si pone la questione di come valutare gli obblighi previsti ex lege, a fronte delle omissioni datoriali. E questo sarà, dopo questa riforma, un tema tutto da esplorare.

Ma il preposto neppure individuato? Dobbiamo escludere che sia un preposto? Dobbiamo pensare che il legislatore abbia disegnato un nuovo sistema di sicurezza aziendale, in cui in assenza di individuazione, chi ha posizioni sovraordinate sugli altri lavoratori sarebbe ciononostante esonerato da obblighi di garanzia?

Come sopra si è già ricordato, questa conclusione non appare consentita alla luce della riforma, che non ha modificato la definizione di preposto e la sua natura di soggetto garante in quanto titolare di poteri gerarchici; la stessa individuazione non costituisce un conferimento di poteri e di mansioni, ma il riconoscimento di una realtà esistente. D’altro canto, se il preposto non viene individuato come tale dal datore di lavoro, non per questo viene meno la sua posizione sovraordinata sugli altri lavoratori, che comunque continueranno a riconoscerlo come tale. 

Tuttavia, è indubbio che in un sistema dove i preposti devono essere individuati, l’omessa individuazione (l’omessa “investitura formale”) rischia di mettere in crisi la logica dell’effettività. 

6. Politica aziendale e responsabilità 231 dell’ente

E’ certo che, con questa riforma della vigilanza, l’attenzione del datore di lavoro e dell’intera organizzazione agli aspetti di governance deve aumentare ulteriormente. 

Nella nuova prospettiva data dal legislatore, l’obbligo di individuazione dei preposti appare come un momento fondamentale (sia nella forma, sia nella sostanza) nella configurazione dell’assetto di sicurezza di una organizzazione.

Certo, sul piano organizzativo gli obblighi di formazione e di tutela da ritorsioni del preposto sono centrali perché funzionali ad un efficace espletamento dei suoi obblighi, e l’emolumento economico è un incentivo e un riconoscimento all’importanza del ruolo; ma in termini strategici, è l’obbligo di individuazione che si configura come il vero perno della “nuova” vigilanza disegnata dal legislatore attorno alla figura del preposto.

La mancata individuazione dei preposti, e la carenza di vigilanza che ne deriva, costituiscono espressione di una inadeguatezza dell’assetto organizzativo; e questa è ovviamente imputabile totalmente ed esclusivamente ai soggetti apicali, datore di lavoro e dirigenti.

Per converso, l’adempimento degli obblighi di individuazione/formazione, accompagnato dalle misure economiche e dalla assenza di comportamenti ritorsivi, costituiscono gli elementi di un sistema aziendale virtuoso in cui la funzione di vigilanza è assicurata in maniera efficace attraverso l’operato del  preposto in quanto “qualificato” soggetto di garanzia.

Letta in questi termini, la riforma degli articoli 18 e 19 si mostra come un intervento che punta al perseguimento di assetti organizzativi adeguati in ogni realtà lavorativa, secondo una logica molto vicina a quella di un sistema di gestione.

Alla fine, l’attenzione data (o non data) alla figura dei preposti è destinata a diventare un segno importante della “politica aziendale”, con valenza quindi non soltanto per le persone fisiche che rivestono posizioni di garanzia, ma anche per l’ente e per la sua responsabilità ai sensi del Decreto 231.

Lavoratori “fragili”, COVID-19, smart working: la guida ANMA per il rientro in azienda

E’ stato un piacere per il nostro Studio collaborare con la Associazione Nazionale dei Medici Competenti, la quale ha pubblicato una nota operativa per gestire al meglio il rientro in azienda dei lavoratori “fragili” (per età, immunodepressione, patologie oncologiche, ecc.), accompagnata da un nostro commento che la inserisce nel contesto normativo di riferimento.

Clicca qui e leggi la nota e il commento, e scopri gli obblighi di Datore di Lavoro, Medico Competente e Lavoratore.

App “Immuni” – Utilizzo nei luoghi di lavoro

In data 29 giugno 2020 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la Legge n. 70/2020 di conversione del Decreto Legge n. 28 del 30 aprile 2020, con il quale il Governo, nell’ambito delle misure di sanità pubblica legate all’emergenza Covid-19, ha istituito la piattaforma unica nazionale per la gestione del sistema di allerta dell’app “Immuni”, finalizzata a tutelare la salute di tutti gli individui entrati in stretto contatto con soggetti risultati positivi al Covid-19.

L’art. 6, inserito nel capo II (Misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19), del sopracitato decreto statuisce che l’installazione dell’app avviene su “base volontaria” e che “il mancato utilizzo dell’applicazione (…) non comporta alcuna conseguenza pregiudizievole ed è assicurato il rispetto del principio di parità di trattamento”.

Il Legislatore ha inoltre previsto che gli utenti debbano ricevere, in ossequio agli artt. 13 e 14 del GDPR, idonea informativa al fine di raggiungere una piena consapevolezza in ordine alle finalità del trattamento, alle tecniche di pseudonimizzazione utilizzate ed ai tempi di conservazione dei dati.

Quanto alla conservazione dei dati, il Legislatore ha stabilito che l’utilizzo dell’applicazione e della piattaforma siano interrotti alla data di cessazione dello stato di emergenza (allo stato proclamato fino al 31 luglio 2020, salvo proroghe) e comunque entro e non oltre il 31 dicembre, e che entro la medesima data tutti i dati personali raccolti siano cancellati o resi definitivamente anonimi.

Con provvedimento n. 95 del 1° giugno 2020 il Garante per la Protezione dei Dati Personali ha autorizzato il Ministero della Salute ad avviare il trattamento dei dati relativo al sistema di allerta Covid-19, imponendo però il rispetto di alcune prescrizioni, tra le quali l’obbligo di informare adeguatamente gli utenti in ordine alla possibilità che l’app generi notifiche di esposizione che non sempre riflettono un’effettiva condizione di rischio e l’obbligo di consentire agli utenti di poter disattivare l’app attraverso una funzione facilmente accessibile.

Nel provvedimento il Garante ha chiarito che l’utilizzo su base volontaria comporta che la volontà dell’utente si debba manifestare in tutti gli aspetti del funzionamento dell’app: il download, l’installazione, la configurazione, l’attivazione del rilevatore Bluetooth, la disinstallazione ed altresì il caricamento dei propri dati relativi al risultato del tampone. Ciò significa che ogni aspetto del funzionamento dell’app si basa su una scelta personale dell’utente ed è condizionato alla prestazione del suo consenso.

Lo scorso 15 giugno l’app “Immuni” è divenuta operativa su tutto il territorio nazionale. Essa funziona sostanzialmente attraverso la memorizzazione, all’interno di un’area crittograficamente protetta del dispositivo, dei dati relativi alle interazioni tra cittadini, e sfruttando la tecnologia Bluetooth Low Energy (BLE) consente il tracciamento dei contatti senza ricorrere alla geolocalizzazione dei dispositivi degli utenti.

A seguito della piena operatività dell’app, ci si è interrogati sulle sue possibilità di utilizzo all’interno dei luoghi di lavoro e, in particolare, ci si è chiesti se soggetti, sia privati che pubblici, che rivestano la qualifica di datori di lavoro possano obbligare i lavoratori, o soggetti terzi, ad utilizzare l’app “Immuni” come condizione per accedere ai luoghi di lavoro; ciò ovviamente nell’ottica di tutela della salute e di implementazione dei protocolli anti-contagio .

A questo proposito si deve fin da subito evidenziare come qualsiasi disposizione unilaterale con la quale il datore di lavoro imponesse al lavoratore l’utilizzo dell’app “Immuni” sarebbe viziata da illegittimità. Tale imposizione violerebbe infatti il principio cardine dell’utilizzo su base volontaria, statuito a livello normativo nel D.L. 30 aprile 2020, n. 28 convertito nella Legge n. 70/2020, nonché espresso dal Garante con il provvedimento n. 95 del 1° giugno 2020, e già raccomandato dall’EDPB con le linee guida n. 4/2020.

Non solo. Tale disposizione creerebbe una discriminazione tra i lavoratori che effettuino il download e l’attivazione dell’app “Immuni” e tutti gli altri (che non potrebbero accedere al luogo di lavoro), laddove invece il Legislatore ha precisato che nessuna conseguenza pregiudizievole può derivare dal mancato utilizzo dell’app “Immuni”.

Alcune aziende (soprattutto i grandi gruppi o comunque le aziende di grandi dimensioni) hanno adottato proprie app di tracciamento, diverse ed ulteriori rispetto ad “Immuni”, che si attivano solo quando “agganciano” le reti wi-fi aziendali. La loro operatività pertanto, da un lato, è limitata al luogo di lavoro e, dall’altro lato, presenta specifiche funzioni espressamente pensate e previste per la tutela dei lavoratori (ad esempio l’app di tracciamento “UBISafe” adottata da UBIBanca verifica in tempo reale se due lavoratori sono troppo vicini ed invia loro un alert con l’invito ad allontanarsi).

Un ulteriore profilo da esaminare è il rapporto tra strumenti di lavoro di proprietà dell’azienda e utilizzo dell’app di tracciamento; a questo proposito ci si chiede se il datore di lavoro possa predisporre gli strumenti di lavoro in modo che su di essi l’app di tracciamento sia già attiva (ad esempio fornendo smartphone aziendali con l’app già scaricata). Alla luce dei principi sopra esposti e della loro rigorosa applicazione la risposta non può che essere negativa: da un lato, il principio di volontarietà impone che sia il download sia la configurazione sia l’utilizzo dell’app siano volontari, dall’altro lato, la predisposizione degli strumenti aziendali con l’app di tracciamento già funzionante creerebbe una disparità di trattamento tra i lavoratori dotati di strumenti aziendali (e perciò obbligati all’utilizzo dell’app) e tutti gli altri lavoratori (liberi di utilizzare o meno l’app).

Non è superfluo inoltre ricordare che l’utilizzo dell’app di tracciamento non potrà mai comunque tradursi in un controllo a distanza, vietato dallo Statuto dei Lavoratori.

Uno strumento che potrebbe essere utilizzato e che potrebbe assumere una nuova veste in questo panorama è l’accordo sindacale con il quale parte datoriale e le parti sociali potrebbero condividere e disciplinare delle azioni per sensibilizzare i dipendenti e promuovere l’utilizzo dell’app di tracciamento nell’ottica comune di proteggere la salute sul luogo di lavoro.

Ecco perché il Coronavirus non può essere (sempre) infortunio sul lavoro

L’origine professionale del contagio deve essere provata, non presunta. Di responsabilità non si dovrebbe neppure iniziare a discutere, se manca la prova del contagio sul lavoro.

1. L’infezione da Coronavirus come malattia-infortunio

E’ la legge, e non INAIL, ad avere introdotto la qualificazione della infezione da Coronavirus (SARS-CoV-2) come infortunio sul lavoro; ma certo INAIL ci ha messo del suo.

L’art. 42 della legge n. 27/2020 (conversione del D.L. n. 18/2020) è noto: “Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato”.

Ciò garantisce al contagiato le prestazioni INAIL  “anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro”.

La norma si basa sulla nozione giuridico-dottrinaria di “malattia-infortunio”, fondata sulla equiparazione della causa virulenta alla causa violenta. Posto che ciò che distingue l’infortunio sul lavoro dalla malattia professionale non è la conseguenza per la persona, bensì la modalità con cui opera l’agente causale (notoriamente l’infortunio si qualifica per la “causa violenta”, la malattia invece per una azione prolungata nel tempo), utilizzando il criterio della causa virulenta da tempo l’ordinamento ha dato tutela alle malattie infettivo-parassitarie attraverso il loro inquadramento assicurativo nella categoria degli infortuni.

Per il contagio da COVID-19, la circolare INAIL n. 13 del 3 aprile 2020 interpretativa dell’art. 42 ha dunque fatto applicazione dell’indirizzo INAIL in materia di malattie infettive e parassitarie di cui alla Circolare INAIL n. 74 del 23 novembre 1995: “la causa virulenta è equiparata a quella violenta”.

Di qui, l’affermazione per cui la infezione da Coronavirus è infortunio; ma naturalmente, per essere infortunio “sul lavoro” e quindi indennizzabile INAIL, deve essere provata la causa di lavoro.

2. Il problema della prova della origine professionale: la presunzione semplice

Qual è il momento contagiante? Come può dimostrarsi che l’infezione è stata contratta per causa di lavoro?

E’ su questo punto, che la Circolare INAIL n. 13 introduce le regole che tanta preoccupazione stanno determinando in tutti coloro i quali operano nei luoghi di lavoro con una posizione di garanzia (il datore di lavoro, ma certo non solo lui).

Ciò che l’art. 42 richiede, in quanto indispensabile per qualificare un infortunio come “sul lavoro”, è che il caso di infezione da Coronavirus  sia “accertato” come contratto “in occasione di lavoro”.

Sulla definizione di occasione di lavoro, la Circolare INAIL n. 13 richiama “tutte le condizioni temporali, topografiche e ambientali in cui l’attività produttiva si svolge e nelle quali è imminente il rischio di danno per il lavoratore, sia che tale danno provenga dallo stesso apparato produttivo e sia che dipenda da situazioni proprie e ineludibili del lavoratore”.

Ma può esservi contagio in occasione di lavoro, se il rischio di contagio costituisce un rischio generico?

Nel sistema di assicurazione degli infortuni sul lavoro di cui al D.P.R. n. 1124/1965 – non dimentichiamoci che l’art. 42 della legge n. 27/2020 si intitola “Disposizioni INAIL” – “rischio generico” è quello che non ha relazione con l’attività lavorativa e professionale ma grava in maniera uguale e indiscriminata su tutti i cittadini, lavoratori e non. Esso non è oggetto di copertura assicurativa INAIL. Quindi, una persona che contrae l’infezione per un contatto avvenuto per la strada o in qualsiasi momento della sua vita privata non ha diritto a tutela, indipendentemente dal fatto che si tratti di un lavoratore (cioè di soggetto rientrante nella categoria dei soggetti tutelati dal Testo Unico INAIL) oppure no.

La persona del lavoratore è tutelata quando l’infezione è contratta per una esposizione ad un “rischio specifico”, se cioè il rischio di contagio ha una relazione causale diretta con l’attività lavorativa esercitata. E’ il principio in forza del quale il camionista o l’autista del bus è tutelato per i rischi della circolazione stradale: per quei lavoratori si tratta di rischi lavorativi a tutti gli effetti.

Una ulteriore specificazione riguarda le ipotesi del “rischio generico aggravato”, cioè i casi in cui un rischio è astrattamente generico, ma è aggravato da particolari fatti o circostanze che lo ricollegano all’attività lavorativa svolta al punto da far ritenere il lavoratore come meritevole di tutela assicurativa.

In situazioni di questo tipo, la giurisprudenza ha elaborato in passato il principio della “Presunzione Semplice d’Origine”: la prova di un contagio di supposta origine professionale, sebbene non dimostrata, può ritenersi presunta in presenza di gravi, precisi e concordanti elementi.

Sviluppato ad esempio per rischi professionali di infezione da Epatiti o AIDS, il principio ha trovato applicazione da parte di INAIL ritenendo l’origine professionale per soggetti esposti per motivi professionali al contatto con sangue e sperma: chirurghi, infermieri addetti a prelievi di sangue, personale addetto a manipolazione di sangue o sperma per accertamenti di laboratorio.

3. Contatti con i malati, contatto con il luogo, contatti con il pubblico/l’utenza: tre diversi casi di presunzione semplice.

Ebbene, nel caso della pandemia, la Circolare 13  afferma che gli operatori sanitari sono “esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus”.

Questo non dovrebbe significare che per tutti gli operatori sanitari contagiati si verte in ipotesi di infortunio; l’Istituto dovrebbe comunque compiere una propria indagine finalizzata a verificare, ad esempio, la compatibilità temporale del periodo di incubazione, il contatto con un soggetto in condizioni tali da trasmettere il contagio, ma anche la esclusione di comportamenti extraprofessionali “a rischio”.

Senonchè, la Circolare INAIL n. 13 prosegue oltre, nella sua applicazione della presunzione semplice:

“A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari”.

L’ambito di applicazione dello strumento presuntivo si allarga di molto.

INAIL di fatto tratta allo stesso  modo, ai fini probatori (anzi, presuntivi) il contatto con i malati o i casi sospetti di Coronavirus (sono i soggetti “a rischio” con i quali vengono a contatto per lavoro gli operatori sanitari) e il contatto con il pubblico/l’utenza (cioè le persone “comuni” con le quali vengono a contatto per lavoro gli addetti alle vendite, front-office, ecc.); INAIL tratta allo stesso modo anche i contatti non con le persone, ma con il luogo in cui le persone infette sono in qualche modo presenti o anche solo transitate, o con “le cose” che ivi si trovano (è il caso del personale non sanitario degli ospedali).

E’ evidente che si pone un problema legato al fondamento scientifico di questa equiparazione, ad esempio in tema di modalità di circolazione e trasmissione del virus, ma non è certo il nostro tema.

Quello che possiamo osservare, sul piano normativo, è invece che  tra il DPCM 11 marzo 2020 e il DPCM 17 maggio 2020 esiste un abisso, in punto di presunzione di contagio da contatto: il divieto quasi assoluto di contatto diretto tra le persone allora introdotto è stato ora di fatto eliminato dal legislatore, sostituito da una regola di segno contrario secondo cui è possibile muoversi liberamente, salve talune circostanze particolari.

E’ ancora possibile affermare in questo mutato contesto – ammesso che lo fosse prima – che il contatto con l’utenza è fattore di rischio, o meglio di “aggravamento del rischio” rispetto al rischio generico di contagio?

Inoltre, quanto contano i comportamenti extraprofessionali, i contatti del lavoratore fuori dell’orario di lavoro, i contatti dei suoi familiari, congiunti, amici, conoscenti, di tutti coloro che possono ora essere liberamente frequentati?

La discussione naturalmente è aperta; ma ci sembra che proprio questo sia un punto fondamentale, e cioè rimuovere la convinzione che la Circolare INAIL  (una circolare anch’essa, alla fine) abbia detto una parola definitiva; a maggior ragione ove si considerino le circostanze assolutamente – quelle sì – emergenziali in cui fu emanata.

4. I lavoratori fuori della presunzione semplice, cioè tutti gli altri.

Cosa accade invece per tutte le altre categorie di lavoratori?

La Circolare INAIL si occupa anche di loro:

“Residuano quei casi, anch’essi meritevoli di tutela, nei quali manca l’indicazione o la prova di specifici episodi contagianti o comunque di indizi “gravi precisi e concordanti” tali da far scattare ai fini dell’accertamento medico-legale la presunzione semplice.  In base alle istruzioni per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, la tutela assicurativa si estende, infatti, anche alle ipotesi in cui l’identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica. Ne discende che, ove l’episodio che ha determinato il contagio non sia noto o non possa essere provato dal lavoratore, né si può comunque presumere che il contagio si sia verificato in considerazione delle mansioni/lavorazioni e di ogni altro elemento che in tal senso deponga, l’accertamento medico-legale seguirà l’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale”.

In sostanza, INAIL non afferma che ogni caso di contagio di un lavoratore è infortunio sul lavoro; afferma esattamente il contrario, e cioè che l’infezione diventa tale solo se è dimostrato che è tale.

INAIL afferma che ognuno di questi casi deve essere affrontato singolarmente e fatto oggetto di specifica istruttoria; in altre parole, ogni volta che un lavoratore contrae l’infezione, deve verificarsi: 1) se è noto e/o se viene provato l’episodio che ha determinato il contagio, oppure 2) se ci sono elementi presuntivi legati alla specifica fattispecie oppure 3) se l’accertamento medico-legale conduce ad affermare la natura “lavorativa” del contagio. Se nessuno di questi casi si configura, l’infezione non potrà essere trattata come infortunio sul lavoro; si tratterà di ordinaria malattia.

Tutto secondo i principi, allora?

Dipende da come le tre circostanze vengono intese; dipende se e quanto uso si farà di presunzioni; dipende da come verrà gestita la “’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale”.

Quello che il datore di lavoro può e deve temere, ad esempio, è che si finisca per includere, tra le circostanze “privilegiate”, le eventuali violazioni rilevate nel luogo di lavoro delle regole di contenimento del contagio.

Sarebbe profondamente sbagliato: la violazione della regola cautelare di prevenzione rileva ai fini della colpa, per imputare al datore di lavoro la responsabilità di un contagio;  ma una tale affermazione di responsabilità richiede prima, appunto, la prova che quel contagio è avvenuto in azienda.

Però questa “necessità” di prova non emerge, dall’art. 42; anzi, quello che da esso è derivato è l’obbligo di redigere la denuncia di infortunio da parte del datore di lavoro, per il solo fatto che il contagiato è un lavoratore e solo per questo motivo.

Non si tratta, si badi, di negare la tutela assicurativa ai contagiati in occasione di lavoro; si tratta di interrogarsi sull’uso dello strumento presuntivo.

Quello che appare poco condivisibile, della norma, è che essa sembra ignorare il dato di fondo sul piano scientifico e tecnico, e cioè la mancanza di qualsiasi certezza che consenta di dare un minimo di contenuto concreto alla parola chiave dell’art. 42: infezione “accertata…in occasione di lavoro”.

Si dà per scontato, nella formulazione della norma, che sia infortunio sul lavoro soltanto la infezione “accertata”, e questo è corretto; ma non si è voluto fare i conti con i rischi di una applicazione impropria per ovviare le difficoltà di questo accertamento.

La Circolare n. 13, dal canto suo, verosimilmente nel lodevole intento di dare tutela ai lavoratori più coinvolti nella fase violenta dell’epidemia, ha applicato in maniera lapidaria e perentoria un sistema di presunzioni semplici che probabilmente avrebbe meritato ben altro studio del caso concreto, e che sicuramente oggi richiede una profonda riflessione e probabilmente una rivisitazione.

Insomma, oggi si parla molto di responsabilità e giustamente si critica l’art. 42 per questo: ma prima ancora di discutere il tema della responsabilità civile e penale del datore di lavoro, ci sembra che sia da mettere in discussione la tesi che ne è  presupposto, e cioè la natura stessa del contagio come infortunio.

E’ la premessa che va innanzitutto cambiata; è la deroga all’onere della prova sull’origine professionale, la distorsione che per prima va combattuta.

5. INAIL ha davvero escluso la responsabilità del datore di lavoro?

Gli interventi di questi giorni di INAIL (il comunicato stampa del 15 maggio 2020 che ricorda gli oneri probatori in sede civile e penale per aversi responsabilità del datore di lavoro; l’intervista del Presidente ad un quotidiano) sono senz’altro apprezzabili, nel loro intento di dire una parola di tranquillità; ma forse suscitano proprio l’effetto contrario. Perché se INAIL parla di responsabilità, anche se per metterla in dubbio, vuol dire che già siamo in un contesto di infortunio sul lavoro.

Nulla dice INAIL, invece, per rettificare il tiro sull’utilizzo della presunzione semplice in maniera massiva; né detta direttive precise, rigorose e stringenti sui criteri di accertamento dell’origine professionale.

Se la ragione di questo silenzio è la mancanza di certezze scientifiche sufficienti, è più una preoccupazione che una consolazione.

In realtà, INAIL avrebbe potuto valorizzare, nel dibattito in corso,  ciò che l’art. 42 dispone espressamente, e cioè che gli eventi infortunistici di cui si discute “non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico” dell’azienda. Questa precisazione dovrebbe confermare la natura mutualistica dell’art. 42, e che la scelta del legislatore è stata quella di assicurare tutela ai contagiati ma al tempo stesso di non addebitare le relative conseguenze economiche al datore di lavoro, evidentemente per l’impossibilità di imputare a lui la responsabilità del contagio.

Però nessuna voce si è udita da INAIL in questo senso; anzi ed al contrario, non appare infondato il timore che proprio la necessità di recuperare gli oneri di questa tutela estesa possa un domani giustificare l’esercizio di azioni di regresso dell’Istituto verso i datori di lavoro, previa contestazione di una ritenuta responsabilità di rilevanza penale. Contestazione rispetto alla quale certamente non gioverà, al datore di lavoro, “la mutevolezza delle prescrizioni da adottare nei luoghi di lavoro”: nonostante il comunicato stampa INAIL mostri sul punto una sorprendente diversa opinione.

Coronavirus e sicurezza nella Fase 2. I Comitati Aziendali COVID-19: i quesiti più ricorrenti.

Una delle caratteristiche distintive dei Protocolli Condivisi di regolamentazione delle misure per il contenimento del contagio da COVID-19, a partire dal Protocollo del 14 marzo 2020 poi aggiornato dal Protocollo del 24 aprile 2020 (ora allegato 6 al DPCM 26 aprile 2020) è la introduzione di un “Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione”.

La costituzione di tale Comitato è oggetto di un punto specifico tanto nel Protocollo per gli Ambienti di Lavoro allegato 6 (punto 13), quanto nel Protocollo per i Cantieri allegato 7 (punto 10); il Comitato è citato anche nel terzo Protocollo allegato al DPCM e cioè quello per il Trasporto e la Logistica allegato 8.

Datori di lavoro, RSPP, Medici Competenti, lavoratori, sono molti i soggetti che si stanno interrogando su questi Comitati: affrontiamo qui le domande più ricorrenti.

1. Chi sono i componenti del Comitato?

I Protocolli del 24 aprile non dispongono nulla sulla composizione del Comitato, salvo che ad esso partecipano le rappresentanze sindacali aziendali e il RLS.

Questa è, quindi, l’unica presenza da cui non si può prescindere: RSA e RLS (non altri lavoratori che non abbiano quelle qualifiche, peraltro).

In realtà, si tratta di componenti “necessari” soltanto nel caso in cui tali figure esistano all’interno del luogo di lavoro: ma potrebbero anche non esserci, ed infatti, i Protocolli contemplano la possibilità che il Comitato Aziendale non venga costituito.

L’altra presenza che si deve ritenere necessaria è quella della parte datoriale (è bene precisarlo, anche se non è menzionata): del resto, il Comitato è costituito “in azienda”, con lo scopo di applicare e verificare il Protocollo Aziendale che è atto (e documento) del datore di lavoro; sarebbe impensabile un Comitato, costituito per gestire il fenomeno COVID-19 in azienda, che non veda la presenza datoriale. Altra questione è, invece, chi debba farne parte in rappresentanza dell’azienda.

Parte datoriale e parte sindacale sono dunque gli unici componenti necessari del Comitato.

2. Al Comitato deve partecipare il datore di lavoro personalmente?

Non è obbligatorio che il Comitato veda la presenza personalmente del datore di lavoro, intendendo per tale il soggetto individuato ai sensi dell’art. 2 comma 1 lettera b) del Decreto 81/08; sarà componente del Comitato il soggetto che il datore di lavoro riterrà di designare in funzione della organizzazione aziendale e delle proprie scelte, appunto, datoriali. Potrà trattarsi del delegato art. 16, ove esistente; ma anche di un delegato “generico”, per dire così, appositamente indicato per lo scopo; potrà essere un soggetto appartenente alle funzioni della produzione, delle risorse umane, dell’HSE, e così via. Potrà anche trattarsi di più soggetti tra questi, qualora il datore di lavoro ritenga che sia opportuno.

La sola condizione, che sembra doversi individuare, è che si tratti di una figura che occupa un ruolo aziendale significativo e adeguato alla funzione del Comitato e quindi al confronto con la parte sindacale.

3. Al Comitato devono partecipare necessariamente il RSPP e il Medico Competente?

I Protocolli del 24 aprile non richiedono nessuna composizione specifica del Protocollo, a parte la presenza di RSA e RLS.

Il fatto che essi nulla dicano sulla partecipazione al Comitato di RSPP e Medico competente  è chiaro indice della scelta di lasciare libertà nella costituzione dell’organismo.

Una presenza obbligata del RSPP e/o del MC, d’altro canto, non appare giustificata né dalla natura di questo organo collegiale, sostanzialmente concepito come un soggetto di partecipazione delle (contro)parti sindacali, né dalla sua funzione, che appare disegnata come momento di confronto e di (appunto) partecipazione.

RSPP e MC non appaiono, a maggior ragione quali soggetti esterni alla organizzazione, naturali elementi costitutivi di questa realtà di partecipazione; anzi la loro presenza si mostra per molti versi poco in linea con la funzione dell’organismo.

Naturalmente, le azioni e le valutazioni di RSPP e MC – che continuano comunque ad essere compiute, nell’ambito dei rispettivi compiti – potranno ben essere utilizzate e valorizzate dal Comitato nell’esercizio delle proprie funzioni.

Diversa può essere la risposta se le aziende aderiscono ad organizzazioni firmatarie di specifici Protocolli che dispongono in tal senso (ad esempio il Protocollo Moda del 15 aprile 2020); ma certo sono funzioni che poco hanno a che vedere con la funzione partecipativa dell’organismo quale momento di confronto aziendale.

La libertà di composizione si traduce anche, in termini concreti, nella mancanza di un obbligo di un RSPP (esterno, per l’interno ovviamente la dinamica è tutt’altra trattandosi di un rappresentante della parte datoriale in senso lato) o di un MC, di divenire componente di un Comitato Aziendale contro la sua volontà, o comunque in forza di un qualche inesistente automatismo con la funzione.

4. Quali funzioni ha il Comitato?

I punti dei due Protocolli del 24 aprile che introducono i Comitati si intitolano entrambi “Aggiornamento del Protocollo di Regolamentazione”.

La funzione del Comitato Aziendale è così già chiaramente indicata: si tratta di un organismo il cui scopo è di fare in modo che il Protocollo Aziendale sia aggiornato alle esigenze di un fenomeno in continua evoluzione.

I due Protocolli enunciano in maniera identica anche la funzione del Comitato nel corpo dei due articoli: Comitato “per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione”.

Applicazione, verifica, aggiornamento: il Comitato Aziendale è strumentale a questi obiettivi.

La logica è quella della partecipazione (nel Protocollo Servizi Ambientali del 19 marzo 2020, il paragrafo che costituisce il  Comitato si intitola “Partecipazione-Livello Aziendale”).

Come si ricorderà, i Protocolli nascono da un esplicito invito del DPCM 11 marzo 2020 ad intese “tra organizzazioni datoriali e sindacali”. I Comitati sono il risultato di quelle intese, e lo strumento attraverso cui le parti che le hanno firmate hanno voluto poi dare a questa partecipazione una continuità di azione.

5. In cosa consiste la funzione del Comitato di “verifica” del Protocollo?

La natura spiccatamente sindacale e partecipativa del Comitato consente di dare un significato ben definito alla nozione di “verifica”, l’unica che potrebbe far insorgere qualche incertezza sull’ambito di azione del Comitato, sul contenuto delle sue attività, e in ultima analisi anche sulla rilevanza giuridica di esse (anche in termini di responsabilità).

La parola “verifica”, infatti, ha un peso particolare, quando si parla di sicurezza sul lavoro, in quanto teoricamente affine a concetti come “vigilanza”, “controllo”, e simili.

In realtà, già sul piano letterale (pur nella consapevolezza che la tecnica di scrittura dei Protocolli Condivisi non è cristallina) si può innanzitutto osservare che non si parla, appunto, di “vigilanza”, intesa come azione puntuale di controllo momento per momento specificamente finalizzata ad accertare l’osservanza delle regole ed a prevenirne la violazione.

Già letteralmente, dunque, il Comitato non compie attività di vigilanza operativa.

Ma è soprattutto sul piano sistematico, che la “verifica” non può essere letta come “vigilanza”.

Innanzitutto perché il sistema aziendale di vigilanza sulle regole già esiste, e certamente opera per le regole anti-contagio come per ogni altra regola di prevenzione. Creare un organo di vigilanza ulteriore, al di fuori perdipiù di ogni schema normativo, è del tutto inutile ai fini della tutela, e fonte di insuperabile confusione ai fini dell’applicazione.

In secondo luogo perché la funzione di vigilanza è del tutto estranea alla logica della partecipazione, laddove la nozione di “verifica” indica invece in maniera chiara l’intento delle parti firmatarie: assoggettare il Protocollo Aziendale a momenti di analisi partecipata, nei quali appunto “verificare” assieme – datore e sindacato – se le regole previste hanno dato buona prova di sé, se sono compatibili con l’organizzazione e con il suo funzionamento, se sono adeguate rispetto all’andamento del fenomeno pandemico, e così via.

Ogni diversa interpretazione, che attribuisse al Comitato funzioni di vera e propria vigilanza, dovrebbe fare i conti con una serie di questioni di difficile (impossibile?) soluzione: la rispondenza costituzionale e legislativa di un organismo avente funzioni di vigilanza ma creato da parti private; le modalità di esercizio della vigilanza; l’esistenza o meno di poteri in capo al Comitato, e se sì di quale natura; la disciplina delle conseguenze in caso di accertamento delle violazioni; la responsabilità dei componenti del Comitato per omessa o inadeguata vigilanza.

6. Quale rapporto esiste tra le figure del sistema di sicurezza aziendale e il Comitato?

La costituzione del Comitato non fa venire meno, ovviamente, il sistema di sicurezza aziendale operante ai sensi del Decreto 81/08; ma neppure si affianca ed aggiunge ad esso come una sorta di organismo ulteriore che replica le funzioni di quel sistema.

Così come RSPP e MC concorrono alla definizione delle misure nell’ambito delle loro funzioni, supportando il datore di lavoro secondo lo schema consueto e ben noto, così i soggetti aziendali della sicurezza continuano a svolgere il loro ruolo nella fase di attuazione delle regole di prevenzione anti-contagio: lo faranno i dirigenti ed i preposti per la operatività concreta e per la vigilanza, lo faranno il RSPP e il MC per l’esercizio del loro ruolo.

Il Comitato si pone ad un altro e diverso livello, di confronto sull’andamento delle cose.

In sostanza, il Comitato è la sede istituzionalizzata in cui parte datoriale e parte sindacale sono chiamate a svolgere il proprio confronto partecipativo: in quella sede, il Comitato ragiona sui dati e sulle informazioni che le funzioni aziendali (ivi comprese quelle di parte lavoratori, RLS in primis) avranno raccolto nell’esercizio della loro attività; quei dati e quelle informazioni costituiranno il presupposto di conoscenza necessario al Comitato per determinare se il Protocollo è davvero applicato, per verificare se le misure sono attuate in maniera soddisfacente, se necessitano di correttivi, e così via.

7. Che rapporti ci sono tra il Comitato e l’Organismo di Vigilanza 231?

L’Organismo di Vigilanza 231 conforma il proprio operato, in relazione al rischio COVID-19, secondo i canoni che gli sono propri e nell’ambito delle regole tracciate dal Modello di Organizzazione e Gestione dell’ente. Da questo punto di vista, tra Comitato e OdV non ci sono relazioni particolari: né rapporti privilegiati, né posizioni conflittuali, né sovrapposizioni. Per il Comitato, la presenza e/o l’operato dell’OdV rimangono questioni sostanzialmente estranee e di nessun interesse; il Comitato non è certo la sede per sindacare il generale approccio dell’ente alla materia della sicurezza sul lavoro. Per l’OdV, potrà essere utile conoscere gli esiti delle attività del Comitato e le valutazioni espresse da questo, trattandosi di una delle fonti informative utili a compiere la generale azione di vigilanza sulla attuazione del Modello 231.

8. Il Comitato Aziendale può non esserci?

Per testuale previsione dei Protocolli del 24 aprile 2020, può accadere che “non si dia luogo alla costituzione di comitati aziendali”.

Ciò può essere dovuto alla “particolare tipologia di impresa” (dimensioni, organizzazione, struttura incompatibili con la configurazione di un organo partecipativo) o al “sistema delle relazioni sindacali” (mancanza di RLS, di RSA, o altro); in ogni caso è scritto in maniera inequivocabile, che un Comitato Aziendale può non essere costituito.

Probabilmente, il tenore del Protocollo va inteso nel senso che, là dove RLS e/o RSA vi siano, il Comitato va costituito; ma il dato letterale è chiaro.

Questo risponde anche alla domanda, se sia applicabile una sanzione, e quale, quando si accerti che un Comitato non è stato costituito; e risponde all’ulteriore domanda, quali responsabilità si configurerebbero in caso di infortunio da COVID-19 in un’azienda senza Comitato.

Non si riesce davvero ad immaginare, su quali basi normative ed in riferimento a quali norme potrebbe affermarsi l’applicabilità di una sanzione, o dichiararsi l’esistenza di una  responsabilità per il mero fatto della mancata costituzione del Comitato.

Sarebbe paradossale che l’invito del DPCM a intese sindacali, dopo essersi trasformato nella più o meno inconsapevole culla di regole tra privati divenute norme generali, diventasse anche il primo esempio di responsabilità penale o amministrativa per omessa partecipazione sindacale.

Si può semmai osservare, da ultimo, che proprio la soluzione prevista nel Protocollo del 24 aprile 2020 in caso di mancanza del Comitato Aziendale, e cioè la istituzione di un Comitato Territoriale  composto dagli Organismi Paritetici, conferma una volta di più la natura del Comitato quale organo di partecipazione, e non quale nuova figura del sistema di sicurezza aziendale.

9. Si può ipotizzare un Comitato Aziendale quando mancano RSA e RLS?

Quando mancano in azienda sia la RSA che il RLS, la costituzione di un Comitato Aziendale si risolve in una formalità senza sostanza e senza significato, posto che vi è solo la parte datoriale e posto che le funzioni aziendali operano comunque al di fuori del Comitato; sarebbe pertanto improprio pretendere di trovarlo, in sede ispettiva; sarebbe altrettanto improprio costituirlo (magari solo per mostrare in sede ispettiva che esiste). Quando mancano RSA e RLS e il Comitato Aziendale non si costituisce, ciò che i Protocolli del 24 aprile prevedono è che siano le rispettive organizzazioni sindacali ad attivarsi, in particolare attraverso gli Organismi Paritetici, per istituire un Comitato Territoriale. La partecipazione e il confronto si spostano a livello territoriale.

10. Il Comitato è solo per l’emergenza COVID-19?

Alla base della introduzione del Comitato è la dichiarata esigenza di applicazione e verifica delle regole scritte per gestire la fase emergenziale anti-contagio. Il Comitato opera solo ed esclusivamente in funzione delle regole del Protocollo, e non come organismo che si occupa della sicurezza nei luoghi di lavoro nel loro insieme. Per lo stesso motivo, quando il fenomeno pandemico si esaurirà, porterà via con sé tutto ciò che ha creato: dai Protocolli Aziendali, ai Comitati, alle misure di emergenza.

Si chiuderà una finestra; il sistema di regole “Decreto 81/08” tornerà ad essere guida e riferimento.

Dati di localizzazione, tracciamento dei contatti e Covid-19: le linee guida dell’EDPB

L’utilizzo di app per il tracciamento dei contatti sociali (c.d. contact tracing) pone necessariamente una serie di aspetti problematici in materia di privacy e protezione dei dati personali. Il monitoraggio sistematico e su larga scala dell’ubicazione e o dei contatti tra persone fisiche costituisce infatti una grave interferenza nella sfera della vita privata dell’individuo.

Ad oggi, in assenza di provvedimenti del Legislatore, il Commissario Straordinario per l’emergenza COVID-19, con l’ordinanza n. 10/2020, ha disposto di procedere alla stipula del contratto di concessione gratuita della licenza d’uso e di appalto di servizi gratuito con la società creatrice dell’app “Immuni”, prescelta dal Governo. Nell’ordinanza si afferma che il contact tracing è ritenuto un elemento importante all’interno di una strategia sostenibile post-emergenza per un ritorno alla normalità, in quanto tecnologia in grado di rilevare il tracciamento di prossimità in modo molto più efficiente e rapido rispetto a quello tradizionale.

Lo scorso 21 aprile il Comitato Europeo per la Protezione dei Dati (di seguito EDPB) è intervenuto adottando le Linee-guida 04/2020 sull’uso dei dati di localizzazione e degli strumenti per il tracciamento dei contatti nel contesto dell’emergenza legata al COVID-19.

Lo scopo di queste linee guida è solamente quello di fornire dei chiarimenti sulle condizioni e sui principi per un uso proporzionato dei dati di localizzazione e degli strumenti di tracciamento. Il quadro normativo in questo ambito è infatti già rappresentato dal Regolamento UE 679/2016 (GDPR) e dalla Direttiva 2002/58/CE (Direttiva E-privacy) che di per sé consentono di gestire efficacemente tutti gli aspetti relativi alla privacy a fronte alla pandemia in corso.

Con riguardo all’utilizzo dei dati relativi all’ubicazione, l’EDPB ne individua due principali fonti: quelli raccolti da fornitori di servizi di comunicazione elettronica nel corso della prestazione del servizio (come gli operatori di telecomunicazioni mobili), e quelli relativi all’ubicazione raccolti da fornitori di servizi della società dell’informazione la cui funzionalità richiede l’uso di tali dati (ad es: servizi di navigazione).

Questi dati possono essere trattati solo entro i limiti di cui agli artt. 6 e 9 della direttiva 2002/58/CE; ciò significa che il fornitore potrà comunicarli alle autorità o a terzi solo se siano stati resi anonimi ovvero, per il caso in cui non siano dati relativi al traffico, subordinatamente alla raccolta del consenso dell’utente.

L’archiviazione di queste informazioni, ai sensi dell’art. 5 della sopracitata direttiva, può poi avvenire solo se l’utente ha prestato il consenso, ai sensi degli artt. 4 e 7 del GDPR, oppure solo se la memorizzazione e/o l’accesso sono strettamente necessari al servizio esplicitamente richiesto dall’utente.

In ogni caso nelle linee guida in analisi si evidenzia come dovrebbe essere privilegiato il trattamento dei dati relativi all’ubicazione in forma anonimizzata. L’anonimizzazione consente infatti di utilizzare i dati senza limitazioni, eliminando la possibilità di collegarli ad una persona fisica identificata o identificabile con uno sforzo “ragionevole”.

Con riguardo alle app per il tracciamento dei contatti, il loro utilizzo, secondo l’EDPB, può essere legittimato solamente sulla base di un’adozione volontaria da parte degli utenti. Ciò comporta che coloro che non intendano o non possano utilizzare tali applicazioni non debbano subire alcun pregiudizio.

La realizzazione di applicazioni per il tracciamento dei contatti deve poi fondarsi sui principi di responsabilizzazione, di limitazione delle finalità di trattamento, di minimizzazione, di protezione dei dati fin dalla progettazione e di limitazione della conservazione dei dati. In applicazione di questi principi le app non dovrebbero comportare il tracciamento della posizione dei singoli utenti, bensì utilizzare le informazioni di prossimità relative agli utenti stessi. Queste informazioni, che devono essere pertinenti e strettamente necessarie, dovrebbero poi risiedere nell’apparecchiatura terminale dell’utente. Il trattamento delle informazioni così raccolte non necessita del consenso dell’utente esclusivamente laddove le operazioni di trattamento siano necessarie per consentire al fornitore dell’app di rendere il servizio esplicitamente richiesto.

L’utilizzo delle app di tracciamento può poi comportare il trattamento di dati personali relativi alla salute che come tali sono soggetti alle particolari garanzie contenute nell’art. 9 del GDPR. Il Comitato in proposito ricorda che il trattamento dei dati relativi alla salute è consentito quando è necessario per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica (art. 9, co. II, lett. i) del GDPR) o per le finalità dell’assistenza sanitaria (art. 9, co. II, lett. h) GDPR).

In conclusione, l’EDPB chiarisce che l’attuale crisi sanitaria non dovrebbe trasformarsi in un’occasione per derogare al principio di limitazione della conservazione dei dati. La conservazione infatti dovrebbe essere limitata alla luce delle reali esigenze e della rilevanza medica dei dati personali, i quali dovrebbero essere conservati solo per la durata della crisi dovuta al COVID-19, ed al cui termine dovrebbero essere cancellati o resi anonimi.

Coronavirus e sicurezza nelle attività produttive: verso la Fase 2. Obblighi COVID-19 del datore di lavoro, art. 2087 c.c., rischio zero. Può esserci responsabilità per omissione di misure non previste dalla legge?

Si avvicina il momento della cosiddetta Fase 2, quella della ripresa delle attività produttive dopo la sospensione forzata introdotta dal DPCM 22 marzo 2020.

In attesa di sapere chi e quando potrà riaprire, una cosa è certa: si potrà farlo soltanto se sarà garantita la sicurezza dei lavoratori e dei luoghi di lavoro.

Le norme che detteranno regole e limiti per chi riapre non ci sono ancora, ma una panoramica di quello che possiamo aspettarci è possibile ripercorrendo con gli occhi del “dopo” i temi che hanno contraddistinto il “prima”, e cioè questi due mesi nei quali si è passati dalle prime misure anti-contagio senza limitazioni per le attività produttive, alla fase di sospensione generalizzata salve eccezioni, alla condivisione dei Protocolli di prevenzione.

Abbiamo già esaminato il tema “DVR”; ma c’è un altro tema di carattere generale sul quale è necessario soffermarsi, in questa fase in cui vige uno stato di emergenza, dichiarato dal Consiglio dei Ministri in data 31 gennaio 2010 per la durata di sei mesi, in conseguenza “del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”.

Quale applicazione può avere l’art. 2087 c.c.? Il datore di lavoro può essere ritenuto responsabile, se non adotta misure prevenzionali che non sono espressamente prescritte?

Nelle analisi sviluppate dagli interpreti in queste settimane sugli obblighi del datore di lavoro in relazione al rischio COVID-19, è frequente trovare il richiamo all’art. 2087 c.c. e all’obbligo di “adottare le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare” la salute del lavoratore.

In particolare, sul tema delle misure da adottare, ricorre l’affermazione secondo cui il datore di lavoro deve adottare non solo le specifiche misure di tutela imposte dagli atti normativi, ma anche ogni altra misura ricavabile – appunto ai sensi dell’art. 2087 c.c. – dal sapere scientifico e tecnologico;  con il corollario intimamente correlato dell’obbligo di applicazione del principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, di cui all’art. 15 lettera b) del D.Lgs. n. 81/08.

E’ un principio pacifico, ed anzi uno dei capisaldi dell’ordinamento della materia.

Ma questa affermazione viene a volte accompagnata dalla tesi secondo cui la valutazione del rischio-COVID-19 la deve fare il datore di lavoro nel DVR, e poi dall’ulteriore richiamo alla definizione di “salute” contenuta nell’art. 2 lettera o) del Decreto 81 (“stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”); e allora è facile ricavarne la conseguenza (che magari quegli interpreti non esprimono a chiare lettere, ma che inequivocabilmente sottendono): il rischio di contagio (che certamente esiste ovunque perché non prevenibile in assoluto – principio pacifico in tutti i provvedimenti delle Autorità, di qualsiasi livello)  all’interno dei luoghi di lavoro non può/non deve esistere e può/deve essere prevenuto in assoluto, adottando ogni misura immaginabile; quindi, per ogni caso di contagio di un lavoratore andrebbe affermata la responsabilità del datore di lavoro, per non aver fatto tutto quanto l’art. 2087 c.c. gli imponeva di fare per garantire “il completo benessere  fisico” del lavoratore.

Quel che ne deriva è la qualificazione del contagio come infortunio sul lavoro imputabile alla responsabilità del datore di lavoro; lo tratteremo in un prossimo articolo, ma è la inevitabile ricaduta finale della tesi di cui sopra.

Domandiamoci allora se davvero l’art. 2087 c.c. giustifica questa lettura.

*

Non è in discussione che l’art. 2087 c.c. va applicato, e che non va affermata una qualche deroga alla norma.

Si tratta piuttosto di dare all’art 2087 c.c. una applicazione corretta e rigorosa, nel suo intrinseco contenuto messo in relazione alla situazione eccezionale tipica del presente stato di emergenza.

L’art. 2087 c.c. è una norma “aperta”,  insegna la giurisprudenza; ma non nel senso che sancisce una responsabilità oggettiva del datore di lavoro; è norma aperta nel senso che il datore di lavoro deve applicare tutte le misure, anche non tipizzate, che sono funzionali alla prevenzione.

Il suo scopo è di evitare che lo sviluppo delle conoscenze, rendendo inattuali le prescrizioni contenute nelle norme, crei un divario tra norma e realtà, a discapito della tutela dei lavoratori che nella realtà vivono ed operano.

Il riferimento, dunque, è il sapere scientifico e tecnologico. Occorre un sapere scientifico e tecnologico.

I criteri che devono guidare il datore di lavoro sono scritti nello stesso art. 2087 c.c.:

  1. la particolarità del lavoro, intesa come “complesso di rischi e pericoli che caratterizzano la specifica attività lavorativa”;
  2. l’esperienza, intesa come “conoscenza di rischi e pericoli acquisita nello svolgimento della specifica attività lavorativa”;
  3. la tecnica, intesa come “progresso scientifico e tecnologico attinente a misure di tutela su cui il datore di lavoro deve essere aggiornato” e che deve cioè conoscere per definizione.

Di fronte al rischio COVID-19, questi parametri danno al datore di lavoro dei margini di manovra che vanno oltre le prescrizioni esplicite dell’Autorità?

Possiamo affermare che esistono un sapere scientifico e tecnologico, un’esperienza lavorativa, una conoscenza analitica dell’impatto sulle singole specifiche attività lavorative, tali da costituire un patrimonio certo di conoscenze che il datore di lavoro può – e quindi deve – conoscere, e da cui può – e quindi deve – ricavare ogni possibile misura di prevenzione anche oltre quelle, che le Autorità gli prescrivono?

E ancora, andando fino alla radice del problema: si può affermare che, per il COVID-19, un “rischio-zero” nei luoghi di lavoro è possibile? Che esistono misure di prevenzione tali per cui il rischio nei luoghi di lavoro può essere non soltanto ridotto, ma addirittura eliminato?

L’emergenza Coronavirus impone di definire quale sia, in questo momento, il sapere scientifico e tecnologico; e la risposta sta nelle incertezze che contraddistinguono l’operare quotidiano del mondo scientifico nell’affrontare una patologia nuova e per molti versi ancora sconosciuta.

Ma l’emergenza Coronavirus porta anche alla superficie una caratteristica di fondo del sistema normativo, in cui il dato pacifico per cui il rischio-zero non esiste (Cass. Civ., n. 8911/2019, n. 4970/2017) convive con l’altro dato normativo secondo cui nel luogo di lavoro (e solo nel luogo di lavoro) esiste un diritto alla salute come “completo stato di benessere”; caratteristica che nella pratica a volte si trasforma in insanabile conflitto, in cui ci si dimentica che al bene assoluto si deve senz’altro tendere, ma purtroppo non sempre ci si può arrivare; sicchè proprio una attuazione – questa sì spesso – atecnica e a-scientifica dell’art. 2087 c.c. costituisce a volte il grimaldello improprio per affermazioni non sempre rigorosamente motivate di responsabilità (che poi questo sia l’unico modo con il quale il nostro ordinamento riesce a dare riconoscimento economico al lavoratore infortunato, di fronte ad un meccanismo indennitario pubblico che deve fare i conti con… i conti, questo è un altro tema ancora).

Un sapere scientifico e tecnologico e un patrimonio di esperienza non esistono, in tema di COVID-19, al di fuori delle poche disposizioni emanate dall’Autorità.

Non è casuale che tutti gli interpreti, che pure richiamano in premessa teorica l’art. 2087 c.c., non siano poi in grado di enunciare quali siano i contenuti di questo sapere.

Non è casuale che tutti questi interpreti richiamino, come unico elemento oggettivo, i principi dei DPCM e dei Protocolli Condivisi, salvo solo aggiungere che è obbligo del datore di lavoro adattare i Protocolli alla specifica realtà aziendale.

Ma proprio qui è il punto.

Non è in discussione il fatto, che ogni datore di lavoro deve adottare nella propria organizzazione tutte le misure indicate dal normatore.

La questione è, se in questa parola dobbiamo includere il legislatore in senso stretto (assai poco utile in questa materia…); oppure l’Autorità amministrativa, e di quale livello (DPCM, Decreti Ministeriali – Salute, Lavoro, Pubblica Amministrazione, Istruzione ecc. -, Ordinanze Protezione Civile, e via dicendo), di quale natura (INAIL, ISS), di quale ambito territoriale (Stato, Regioni, Servizi di Prevenzione Territoriali, ecc.); o se infine contano le Parti Sociali (essendo esse assurte, al di fuori dei tradizionali principi regolatori della efficacia dei relativi atti, al ruolo di vero “legislatore” della materia prevenzionale in virtù di meccanismi che non potranno non essere oggetto di analisi anche della giurisprudenza, se e quando ne derivassero vicende processuali basati sui loro atti).

Se la Fase 2 cominciasse nello scenario attuale, un elenco minimo e sicuramente incompleto di documenti con finalità regolatoria includerebbe almeno: il DPCM 10 aprile 2020, il Protocollo 14 marzo 2020 integrato dal Protocollo 24 aprile 2020; gli altri Protocolli “ministeriali” (19 marzo per i cantieri); i Protocolli di Settore (logistica, ceramica, servizi ambientali…).

Ma esistono anche un Documento Tecnico INAIL; i Rapporti ISS; le Istruzioni Operative delle singole Regioni; e così via.

È auspicabile che sia vero quanto si narra ufficiosamente, e cioè che la Fase 2 verrà disposta dal Governo previa adozione di una nuova ed aggiornata  disciplina delle regole di sicurezza, magari non limitata all’assai poco soddisfacente Protocollo del 24 aprile 2020.

Allo stato, in un regime di attività sospese ed altre non sospese, l’art. 2 comma 10 del DPCM ci dice che le attività non sospese “rispettano i contenuti” del Protocollo Condiviso del 14 marzo 2020.

Il che significa, che DPCM e Protocollo (integrato da quello del 24 aprile, a tutto concedere)  costituiscono il patrimonio di regole e misure che il datore di lavoro deve attuare.

E’ un patrimonio di regole in molti casi assai poco prescrittivo, quello attuale, formulato con la ambigua formula della “raccomandazione” o del “potrà”.

E’ un patrimonio di regole per molti versi generico, in cui l’utilizzo di termini apparentemente tecnici si scontra poi con sfumature incerte o con rimandi contraddittori (ne è un esempio il tema della sanificazione/sanificazione straordinaria/sanificazione ai sensi della Circolare 5443 Ministero Salute).

E’ un patrimonio di regole assai poco congruo nel merito, là dove le Parti Sociali gestiscono, senza apparente titolo, profili di rilievo sanitario assoluto (la certificazione medica di “avvenuta negativizzazione”, l’adozione di mezzi diagnostici), perdipiù inspiegabilmente pretendendo di regolare le funzioni delle posizioni di garanzia come è ad esempio per il medico competente.

Però questo è, ed è questa la via che il datore di lavoro deve seguire per la propria organizzazione.

Se un nuovo DPCM sancirà la ripresa delle attività produttive sospese, e indicherà le regole da adottare (direttamente, o mediante rinvio al Protocollo, o in altra maniera), ebbene anche in questo caso quello sarà il confine del sapere scientifico e tecnologico applicabile.

Ma proprio l’art. 2087 c.c. ci dice una cosa ben precisa: in questo contesto emergenziale di ridotta conoscenza, la regola data dall’Autorità è la sola possibile, e la sola che il datore di lavoro deve seguire.

Una volta applicata, nient’altro gli può essere richiesto.

Se i richiami all’art. 2087 c.c. venissero intesi come pretesto, per affermare che il datore di lavoro dovrebbe/avrebbe dovuto fare qualcosa di più e di diverso, ebbene si tratterebbe di una inammissibile gravissima distorsione del contenuto e del significato di una così preziosa ed importante norma: che è norma di tutela dei lavoratori, ma è anche norma di tutela del datore di lavoro, nella misura in cui definisce i confini ultimi ed insuperabili del suo debito di sicurezza verso il lavoratore.

Non è il tempo di salti in avanti; non è il datore di lavoro che deve sperimentare test sierologici, test rapidi, patenti di immunità; non deve ricercare chissà dove soluzioni innovative.

Sarebbero, per l’appunto, esperimenti; ma l’art. 2087 c.c. non chiede al datore di lavoro di sperimentare; chiede al datore di lavoro di applicare il sapere scientifico e tecnologico certo e condiviso.

Questo principio non va dimenticato ora; né andrà dimenticato in futuro, se e quando si giudicheranno le condotte di oggi.

Coronavirus e sicurezza nelle attività produttive: verso la Fase 2. Aggiornamento del DVR, o Protocollo Aziendale Anti-contagio?

Si avvicina il momento della cosiddetta Fase 2, quella della ripresa delle attività produttive dopo la sospensione forzata introdotta dal DPCM 22 marzo 2020.

In attesa di sapere chi e quando potrà riaprire, una cosa è certa: si potrà farlo soltanto se sarà garantita la sicurezza dei lavoratori e dei luoghi di lavoro.

Le norme che detteranno regole e limiti per chi riapre non ci sono ancora, ma una panoramica di quello che possiamo aspettarci è possibile ripercorrendo con gli occhi del “dopo” i temi che hanno contraddistinto il “prima”, e cioè questi due mesi nei quali si è passati dalle prime misure anti-contagio senza limitazioni per le attività produttive, alla fase di sospensione generalizzata salve eccezioni, alla condivisione dei Protocolli di prevenzione.

C’è un tema di fondo che apparentemente interessa solo i tecnici, ma che in realtà tocca tutti nel profondo perché costringe a fare i conti con il fatto che siamo in uno stato di emergenza, dichiarato dal Consiglio dei Ministri in data 31 gennaio 2010 per la durata di sei mesi, in conseguenza “del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”.

Bisogna aggiornare il DVR? O “basta” avere un Piano di Intervento (un Protocollo Aziendale)?

La prima questione che i datori di lavoro hanno dovuto affrontare, quando a febbraio si sono trovati a gestire la sicurezza del lavoro davanti al “Rischio Coronavirus”, è stata questa: se vi fosse obbligo di aggiornare il DVR oppure no.

Ricordiamo che, quando nacque nei primissimi giorni dell’emergenza, la questione non riguardava la adozione o la non adozione di misure per la prevenzione del contagio sul luogo di lavoro: questa è una cosa che nessuno ha mai messo in discussione.

La questione nacque invece perché una corrente di pensiero, velocemente diffusasi nel mondo della rete, riteneva fosse necessario per ogni singolo datore di lavoro valutare il rischio biologico, predeterminare gli scenari di diffusione del contagio secondo livelli di gravità, conseguentemente aggiornare il DVR, e farlo secondo una logica “in continuo”.

Chi nel tempo ha sostenuto questa posizione ha fatto richiamo all’obbligo del Decreto 81/08 di valutare “tutti” i rischi” ivi compresi quelli in senso lato ambientali; agli articoli 266 e seguenti del Decreto 81 sulla esposizione agli agenti biologici; alla natura dinamica del DVR.

La tesi è che, essendo un rischio presente nel luogo di lavoro, deve essere oggetto di un aggiornamento del DVR.

La corrente di pensiero di segno opposto, di cui chi scrive è stato fin da subito sostenitore, ha invece valorizzato il fatto che non si discute di un rischio lavorativo legato alle specifiche lavorazioni ed alle peculiari condizioni di ogni singola azienda, ente, organizzazione; al contrario, la valutazione del rischio è stata compiuta fin da subito dalle Autorità competenti e questo ai fini della tutela della salute pubblica ma anche, all’interno di tale più ampio obiettivo, in riferimento specificamente alle attività lavorative e quindi, con esse, ai luoghi di lavoro.

Sono state fin da subito le Autorità competenti a valutare la natura del rischio, la sua gravità, la sua probabilità; con i propri provvedimenti, il Governo (con l’Autorità Sanitaria) ha classificato l’agente biologico in funzione del rischio per i lavoratori, ha delineato gli scenari di diffusione del contagio, ha valutato la compatibilità dello scenario con lo svolgimento dell’attività lavorativa: ed è stato, si noti, un processo assolutamente dinamico, via via adattato al mutamento delle condizioni ed all’aumentare del rischio di esposizione, del tutto coerente alla regola che vuole che la valutazione del rischio sia costantemente al passo con le esigenze della prevenzione man mano che esse mutano.

Cosa sono stati, se non questo, i provvedimenti con cui dapprima le attività lavorative sono state consentite, poi limitate in alcune zone e non in altre, poi sospese ovunque, ma con limiti ed eccezioni? Il rischio è stato di volta in volta valutato dall’Autorità come un rischio dapprima accettabile – e le attività lavorative sono rimaste aperte; poi accettabile ma solo a certe condizioni – e allora le misure di prevenzione sono state quelle scritte nei DPCM, nelle ordinanze, nei Protocolli; poi ancora (salve eccezioni) inaccettabile – e allora la misura di prevenzione è stata la sua eliminazione: sospensione delle attività.

La Fase 2 non sarà altro che l’esito di una nuova valutazione del rischio.

Sarebbe (stato) a dir poco irrealistico pensare che il datore di lavoro, per quanto supportato dal RSPP, dal Medico Competente, dal RLS e da qualsivoglia consulente, possa davvero gestire a livello aziendale un rischio come questo, decidere se ci sia possibilità di contagio in azienda, se il grado di esposizione sia basso, medio, elevato; magari con il paradosso di vedersi contestare, tra qualche tempo, una errata valutazione del rischio e con essa una imputazione penale o una causa per risarcimento del danno o un’azione di regresso dell’INAIL. O tutte tre.

Quello che la tesi dell’obbligatorio aggiornamento del DVR non considera è che non si tratta affatto, nel caso di specie, di valutare un rischio; non siamo nel contesto dell’art. 28 del Decreto 81; valutare la “probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di esposizione ad un determinato agente” (art. 2, lettera s del Decreto 81) è al di fuori, semplicemente, della portata del singolo datore di lavoro.

La questione non è, dunque, che il rischio sia “presente” nel luogo di lavoro; non è che il rischio sia noto nella sua esistenza; non è che sia ragionevolmente e concretamente possibile il suo manifestarsi; tutto questo è indiscutibile, anzi perfino ovvio; la questione è, che il rischio non può essere valutato dal datore di lavoro. Anzi, proprio per la portata generale e collettiva di una emergenza pandemica, diremmo di più: il rischio non deve essere valutato dal singolo datore di lavoro, nel senso che il datore di lavoro non può neanche pensare di sostituire la propria valutazione a quella dell’Autorità pubblica (o vogliamo forse pensare, che una attività produttiva possa essere riaperta contro il disposto dell’Autorità, perché il datore di lavoro ha valutato che nel suo luogo di lavoro il rischio di diffusione del contagio è minore che all’esterno)?

Questo, e non altro, è il significato della affermazione fatta fin da principio, che non si tratta di un “aggiornamento del DVR”; una affermazione che più soggetti istituzionali hanno fatto propria, confermandola poi nel tempo.

Questo intendono le “Indicazioni Operative per la tutela della salute negli ambienti di lavoro non sanitari” della Regione Veneto, quando scrivono: “In tale scenario, infine, in cui prevalgono esigenze di tutela della salute pubblica, non si ritiene giustificato l’aggiornamento del Documento di Valutazione dei Rischi in relazione al rischio associato all’infezione da SARS-CoV-2 (se non in ambienti di lavoro sanitario o socio-sanitario, esclusi dal campo di applicazione del presente documento, o comunque qualora il rischio di infezione da SARSCoV-2 sia un rischio di natura professionale, legato allo svolgimento dell’attività lavorativa, aggiuntivo e differente rispetto al rischio per la popolazione generale)”.

Alle stesse conclusioni è pervenuto l’Ispettorato Nazionale del Lavoro: “trattasi di un rischio non riconducibile all’attività e cicli di lavorazione e, quindi, non rientranti nella concreta possibilità di valutarne con piena consapevolezza tutti gli aspetti gestionali del rischio, in termini di eliminazione alla fonte o riduzione dello stesso, mediante l’attuazione delle più opportune e ragionevoli misure di prevenzione tecniche organizzative e procedurali tecnicamente attuabili. Lo scenario connesso all’infezione coronavirus vede coinvolti i datori di lavori di questa Amministrazione esclusivamente sotto l’aspetto delle esigenze di tutela della salute pubblica e pertanto, sembra potersi condividere la posizione assunta dalla Regione Veneto”.

Questo non significa, ovviamente, privare di tutela il lavoratore.

Significa invece lavorare al livello che il datore di lavoro può, anzi deve, gestire: il piano delle misure concrete.

Il documento della Regione Veneto richiede al datore di lavoro di “redigere, in collaborazione con il Servizio di Prevenzione e Protezione, con il Medico Competente e con i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, un piano di intervento” finalizzato a individuare e attuare le misure di prevenzione.

INL si pone anche il problema della registrazione delle attività: “è consigliabile formalizzare l’azione del datore di lavoro con atti che diano conto dell’attenzione posta al problema in termini di misure, comunque adottate ed adottabili dal punto di vista tecnico, organizzativo e procedurale, nonché dei DPI ritenuti necessari, in attuazione delle indicazioni nazionali, regionali e locali delle istituzioni a ciò preposte. Per la tracciabilità delle azioni così messe in campo è opportuno che dette misure, pur non originando dalla classica valutazione del rischio tipica del datore di lavoro, vengano raccolte per costituire un’appendice del DVR a dimostrazione di aver agito al meglio, anche al di là dei precetti specifici del d.lgs. n. 81/2008”. Significativamente, anche nel considerare il profilo formale l’INL sottolinea che non si tratta di una classica valutazione del rischio né di un classico DVR, bensì di un documento del tutto atipico e peculiare.

Non condividere la tesi dell’aggiornamento del DVR non significa, dunque, negare la necessità e l’obbligo di adottare ogni misura per la prevenzione del contagio; non significa neanche disattendere gli obblighi del Decreto 81/08.

In realtà, il piano di intervento del datore di lavoro è in tutto e per tutto applicazione del Decreto 81, anzi è proprio questo il punto: si tratta della attuazione rigorosa del Decreto 81, conformata allo scenario del tutto atipico di una pandemia.

E’ solo una questione terminologica, allora?

Da un certo punto di vista sì: che lo si chiami Piano di Intervento, o Protocollo Aziendale, o Appendice del DVR, poco cambia sul piano sostanziale: ciò che conta è che gli interventi di tutela siano adottati, e che siano efficacemente attuati (per usare la terminologia 231).

Da un altro punto di vista, invece, non si tratta solo di usare parole diverse. La differenza è sostanziale, se serve ad evitare l’equivoco, che l’obbligo di “aggiornamento del DVR” venga inteso, tramite il richiamo degli articoli 28 e 29 del Decreto 81, come necessità della presenza di un documento che contenga per forza una “valutazione del rischio”, che richiami gli articoli 266 e seguenti del Decreto 81, e – perché no – che sia munito anche di una data certa.

Una valutazione dei rischi del tutto fittizia, questo sarebbe l’aggiornamento del DVR così inteso; è facile immaginare pagine e pagine che ricopiano i documenti della OMS sulla pandemia o del Ministero della Salute, che dottamente dissertano sul SARS CoV-2 o sul COronaVIrusDisease-2019; tutto molto bello, ma di quale utilità per i lavoratori di quella specifica attività? Cosa avrebbe, questo aggiornamento, di specifica valutazione per la specifica azienda? Nulla.

Probabilmente una interpretazione siffatta, repressa ad inizio emergenza quando avrebbe potuto tradursi in un commercio vorticoso di software ad hoc, ora e nell’immediata futuro avrebbe, oltre a questo, un solo ulteriore significato: costruire i presupposti per prescrizioni 758 di violazione degli articoli 17, 28 e 29 per mancanza di un “DVR aggiornato”, nel migliore dei casi; per imputazioni di lesioni colpose o di omicidio colposo aggravati dalla omessa valutazione di un rischio biologico, nel caso peggiore.

Datori di lavoro e lavoratori, a nostro avviso, meritano di più e di meglio che questo.

Occorre concentrarsi allora sul vero tema, che è quello di definire in maniera specifica le misure di prevenzione per il proprio luogo di lavoro: partire dai Protocolli Condivisi, per approdare al Protocollo Aziendale Anti-contagio.

Le novità sugli ammortizzatori sociali in relazione all’emergenza epidemiologica COVID-19

 

Il Governo, al fine di fronteggiare le conseguenze derivanti dall’emergenza epidemiologica da Covid-19, è intervenuto con misure speciali in materia di trattamento ordinario di integrazione salariale e cassa integrazione in deroga, dapprima con il D.L. del 2 marzo 2020 n. 9, e successivamente con il D.L. del 17 marzo 2020, n. 18, c.d. “Cura Italia”. Quali sono le principali novità?

Come è noto la Cassa integrazione Guadagni è uno strumento di sostegno al reddito dei lavoratori in corso di rapporto, ed è concessa dall’INPS solo nei confronti delle aziende operanti in determinati settori ed in presenza di precise condizioni. 

Nel D.L. del 2 marzo 2020 n. 9, l’Esecutivo ha previsto, all’art. 13, che i datori di lavoro possano presentare domanda di integrazione salariale, o di accesso all’assegno ordinario, in conseguenza dell’emergenza epidemiologica, essendo dispensati dall’osservanza dell’adempimento di cui all’art. 14 del D.Lgs. n. 148/2015 (informazione e consultazione sindacale), nonché di quello all’art. 15, co. II (termine di presentazione della domanda) e 30, co. II (termine per la domanda di presentazione dell’assegno ordinario) del medesimo decreto. 

Il D.L. del 2 marzo 2020 prevede anche una cassa integrazione in deroga per un periodo massimo di tre mesi, a decorrere dalla data del 23 febbraio 2020, ed i cui trattamenti sono concessi con decreto delle regioni interessate.

Le disposizioni in oggetto si riferiscono tuttavia ad una platea ristretta, che riguarda i soli datori di lavoro le cui unità produttive sono site nei comuni individuati all’allegato 1 del DPCM 1 marzo 2020, per tali intendendosi alcuni comuni della Regione Lombardia mentre nel Veneto il solo comune di Vò Euganeo, e per i datori di lavoro le cui unità produttive si trovano al di fuori dei comuni di cui all’allegato 1 limitatamente ai lavoratori già residenti o domiciliati nel comuni di cui all’allegato stesso.

Con il D.L. del 17 marzo 2020, n. 18 il Governo estende le misure di sostegno al lavoro all’intero territorio nazionale, prevedendo una nuova normativa speciale in materia di trattamento ordinario e straordinario di integrazione salariale e nuove disposizioni per la cassa integrazione in deroga.

In particolare l’art. 19 del decreto “Cura Italia” prevede che i datori di lavoro i quali sospendano o riducano l’attività lavorativa per eventi riconducibili all’emergenza epidemiologica possano presentare domanda di concessione del trattamento ordinario di integrazione salariale, o di accesso all’assegno ordinario, per periodi decorrenti dal 23 febbraio 2020 e per una durata massima di nove settimane.

Una prima novità fondamentale, rispetto all’ordinaria disciplina della CIG, riguarda il fatto che i datori di lavoro non sono tenuti alla previa comunicazione alle rappresentanze sindacali delle cause di sospensione dell’attività lavorativa. Di conseguenza, come ha statuito l’INPS nella circolare n. 47 del 28 marzo 2020, le imprese non sono tenute a comunicare a quest’ultimo, all’atto della presentazione della domanda di concessione, l’esecuzione della informazione alle rappresentanze sindacali. Permane tuttavia l’onere in capo al datore, esplicitato nella norma, di informazione, consultazione ed esame congiunto (con le rappresentanze sindacali) che devono essere svolti anche in via telematica entro i tre giorni successivi a quello della comunicazione preventiva.

In secondo luogo, la domanda non è soggetta alle specifiche causali previste dalla disciplina ordinaria (art. 11 D.Lgs. 148/2015); non vi è alcun onere per le imprese di fornire la prova in ordine alla transitorietà dell’evento ed alla ripresa dell’attività lavorativa né, tantomeno, dimostrare la sussistenza del requisito di non imputabilità dell’evento stesso all’imprenditore ed ai lavoratori. Di conseguenza, come chiarisce l’INPS, il datore non sarà tenuto ad allegare la relazione tecnica indicante le ragioni che hanno determinato la sospensione o la riduzione dell’attività lavorativa. Sarà sufficiente allegare l’elenco dei lavoratori destinatari della CIG.

La terza deroga all’ordinario regime della CIG consiste nel fatto che i periodi di trattamento ordinario di integrazione salariale e assegno ordinario concessi ai sensi delle norme speciali contenute nel decreto non sono conteggiati ai fini dei limiti previsti dagli artt. 4 co. I e II, 12, 29 co. III, 30 co. I e 39 del D.Lgs. 148/2015. Pertanto possono chiedere la cassa integrazione ordinaria, specificando quale causale “COVID-19 nazionale”, anche le imprese che hanno già raggiunto i limiti di 52 settimane nel biennio mobile (o di 26 settimane nel biennio mobile per l’assegno ordinario).

Una quarta differenza riguarda i lavoratori destinatari dello strumento previsto dal decreto “Cura Italia”: tali sono coloro che risultano alle dipendenze del datore richiedente alla data del 23 febbraio 2020, a prescindere dall’anzianità di effettivo lavoro e dall’eventuale presenza di ferie fruibili.

All’art. 20 il Governo ha inoltre statuito che le aziende che alla data del 23 febbraio 2020 hanno in corso un trattamento di integrazione salariale straordinario, possono presentare domanda di concessione della cassa integrazione ordinaria, ai sensi dell’art. 19, per un periodo non superiore a nove settimane. La concessione del trattamento ordinario è subordinata alla sospensione degli effetti della concessione della cassa integrazione straordinaria precedentemente autorizzata, senza, anche in questo caso, che il periodo di trattamento ordinario sia conteggiato ai fini della durata massima complessiva prevista dalla disciplina ordinaria della cassa integrazione.

Accanto alle norme speciali relative alla cassa integrazione ordinaria e straordinaria, il Governo è intervenuto, all’art. 22, emanando nuove disposizioni per la cassa integrazione in deroga. Con tale norma l’esecutivo ha demandato a Regioni e Provincie Autonome di poter riconoscere trattamenti di cassa integrazione salariale in deroga “ai datori di lavoro del settore privato, ivi inclusi quelli agricoli, della pesca e del terzo settore compresi gli enti religiosi civilmente riconosciuti, per i quali non trovino applicazione le tutele previste dalle vigenti disposizioni in materia di sospensione o riduzione di orario”.

La concessione della cassa integrazione in deroga sarà autorizzata dalle Regioni e Provincie autonome previo accordo, che può essere concluso anche in via telematica, con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale per i datori di lavoro. Tale accordo tuttavia non è richiesto per i datori di lavoro che occupano sino a cinque dipendenti.

Potranno accedere alla prestazione di cui all’art. 22 le aziende che, avendo diritto alla sola cassa integrazione straordinaria non possano accedere ad un ammortizzatore ordinario (ad esempio le aziende del commercio e le agenzie di viaggio e turismo sopra i 50 dipendenti). Come per lo strumento della cassa integrazione “COVID-19”, anche per la cassa in deroga non si applica il requisito dell’anzianità previsto dalla disciplina ordinaria della cassa integrazione, ed allo stesso modo non è causa ostativa la presenza di ferie pregresse dei lavoratori.

Quanto al rapporto tra le disposizioni contenute nel decreto Cura Italia e quelle contenute nell’art. 13 del D.L. del 2 marzo 2020, n. 9. L’INPS ha chiarito in sostanza che lo strumento contenuto nel Cura Italia, se eventualmente richiesto, si aggiunge al trattamento che era già stato garantito ai datori di lavoro beneficiari ex art. 13 D.L. 2 marzo 2020. Pertanto questi ultimi possono chiedere l’integrazione salariale ordinaria con la causale “Emergenza COVID-19 d.l. 9/2020” e per ulteriori 9 settimane con la causale “COVID-19”. Qualora i periodi delle due domande con distinte causali siano coincidenti, è necessario che i lavoratori interessati dagli interventi siano differenti, mentre se i periodi richiesti non si sovrappongono i lavoratori possono essere gli stessi. Lo stesso discorso vale poi per quanto riguarda il rapporto tra la cassa in deroga di cui al decreto cura Italia e quella prevista nel D.L. 2 marzo 2020.

Da ultimo si ritiene opportuno segnalare che in data 30 marzo 2020 le parti sociali hanno sottoscritto con l’Associazione Bancaria Italiana la “Convenzione in Tema di Anticipazione sociale in Favore dei Lavoratori Destinatari dei Trattamenti di Integrazione al Reddito di cui agli artt. da 19 a 22 del D.L. n. 18/2020”. Oggetto della convenzione è la definizione di una procedura per l’anticipazione – da parte delle Banche che applicano la Convenzione stessa – dei trattamenti di integrazione salariale ordinario e in deroga per l’emergenza Covid. 

L’anticipazione dell’indennità spettante avviene tramite l’apertura di un credito in un conto corrente apposito, qualora richiesto dalla Banca, per un importo forfettario complessivo pari ad euro 1.400 (parametrato a 9 settimane di sospensione a zero ore e ridotto proporzionalmente in caso di durata inferiore e da riproporzionare in caso di rapporto a tempo parziale). 

Destinatari dell’anticipazione sono i lavoratori (anche soci lavoratori, agricoli e della pesca) i quali siano destinatari di tutti i trattamenti di integrazione al reddito di cui agli artt. 19-22 del decreto “Cura Italia”, e che siano dipendenti di datori di lavoro che, anche in attesa dell’emanazione dei provvedimenti di autorizzazione alla CIG per l’emergenza covid, abbiano sospeso dal lavoro i dipendenti stessi, avendo compiuto domanda di pagamento diretto da parte dell’INPS.

L’apertura al credito in conto corrente cessa con il versamento da parte dell’INPS del trattamento di integrazione salariale ordinario o in deroga, ovvero in caso di esito negativo della domanda, anche per indisponibilità delle risorse. 

Smart Working per Coronavirus: lavoro agile, ma con molte differenze

Il DPCM 11 marzo 2020 conferma all’art. 1, comma primo, numeri da 6 a 10, il ricorso alla “modalità di lavoro agile” come misura di contenimento del contagio; non viene però soppresso l’art. 2 lettera r) del DPCM 8 marzo 2020, le cui misure vengono private di efficacia soltanto “ove incompatibili”.

Di fatto, lo Smart Working si stava già rivelando lo strumento maggiormente utilizzato dai datori di lavoro per fare fronte all’emergenza Coronavirus: a tale diffuso impiego sicuramente concorrevano le agevolazioni date fin dai DPCM di febbraio rispetto alla modalità tipica di lavoro agile prevista dalla Legge n. 81/17.

Le semplificazioni previste erano due e sono note: la prima consiste nella applicabilità dello strumento “anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti”; la seconda consiste nella possibilità di assolvere gli “obblighi di informativa” sui rischi generali e specifici connessi a questa particolare modalità lavorativa “in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’INAIL”.

Vi era poi un terzo punto che contraddistingue la fattispecie, e cioè il fatto che è prevista per tali condizioni semplificate una finestra temporale ben precisa, vale a dire  per la durata dello stato di emergenza e quindi per sei mesi dal 31 gennaio 2020 (durata sancita dalla Delibera del Consiglio dei Ministri di pari data).

Il DPCM 11 marzo 2020 modifica in parte il quadro; vediamo in quali punti, e vediamo se ne altera i presupposti di fondo.

Innanzitutto, la nuova disposizione detta discipline diverse per le pubbliche amministrazioni (art. 1 n. 6) e per le attività produttive e professionali (art. 1 n. 7-10).

Alle pubbliche amministrazioni si prescrive:

  • che venga assicurato “lo svolgimento in via ordinaria delle prestazioni lavorative in forma agile”;
  • questo “anche in deroga agli accordi individuali e agli obblighi informativi”; 
  • inoltre, le p.a. “individuano le attività indifferibili da rendere in presenza”.

Per le attività produttive e professionali, invece, non vi sono prescrizioni, perché la norma “raccomanda”;  il che lascia aperti al datore di lavoro gli spazi di esercizio della propria autonomia imprenditoriale, purtuttavia da contemperare con le indicazioni del Governo che sono, con l’ultimo DPCM, alquanto stringenti.

Tali indicazioni sono nel senso di:

  • fare “il massimo utilizzo” del lavoro agile per le attività che “possono” essere svolte a domicilio o con modalità a distanza, e comunque per tutte le attività non sospese;
  • incentivare ferie e congedi;
  • sospendere le attività dei reparti non indispensabili;
  • assumere protocolli di sicurezza anti-contagio, con la distanza interpersonale di un metro come misura principale e, ma solo come scelta subordinata, con la adozione di d.p.i.;
  • incentivare operazioni di sanificazione;
  • limitare al massimo spostamenti all’interno dei siti e contingentare gli accessi agli spazi comuni (per le attività produttive).

Specificamente per le attività produttive, “si favoriscono intese” tra le organizzazioni datoriali e sindacali.

Largo allo Smart Working, dunque?

Sì, ma con alcune precisazioni, dai numerosi effetti pratici.

La prima cosa da sottolineare, la più importante, è che non si tratta di applicazione dello Smart Working tradizionalmente inteso, così come disciplinato dalla Legge n. 81/17: si tratta di una fattispecie del tutto peculiare, che potremo chiamare “Smart Working per Coronavirus”,  la quale ha una disciplina giuridica sua propria con condizioni sue proprie e adempimenti suoi propri.

Questa disciplina risulta attualmente costituita dalla combinazione di due disposizioni: una è l’art. 1 nn. 6-10 del DPCM 11 marzo 2020; l’altra è l’art. 2 lettera r) del DPCM 8 marzo 2020, che rimane a nostro avviso efficace  in quanto compatibile con la più recente disposizione.  

La seconda cosa da sottolineare è che, all’interno di questa nuova fattispecie di lavoro agile, l’ultimo DPCM ha creato due percorsi diversi e distinti tra pubbliche amministrazioni ed attività private; di queste differenze occorre dare conto nel seguito della trattazione.

La terza cosa da sottolineare, di rilievo squisitamente pratico, è che, per porre in modalità agile i lavoratori secondo il DPCM 11 marzo 2020, non è possibile utilizzare tout court i testi e i modelli che nel tempo erano stati  predisposti per lo Smart Working “normale”; è vero che le semplificazioni introdotte dai DPCM rendono il ricorso all’istituto più accessibile, ma è anche vero che lo fanno “trasformandolo” in qualcosa di diverso, e quindi occorre modulare lo strumento alle specifiche condizioni che gli sono proprie.

Vediamo dunque quali differenze, anche nella gestione formale, contraddistinguono lo “Smart Working per Coronavirus”.

  1. Lavoro agile, o “lavoro a casa”? Smart Working,  o Home Working?

Il primo tema da affrontare riguarda il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa agile “per Coronavirus”. 

Come noto, secondo la legge n. 81/17 “la prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno”  e l’accordo individuale disciplina proprio “l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali”, la quale si contraddistingue per essere svolta “senza precisi vincoli di luogo di lavoro” e “senza una postazione fissa”: non si tratta dunque né di lavoro a domicilio, né di telelavoro o lavoro a distanza, ma di prestazione in un luogo che viene “scelto” dal lavoratore  a seconda delle sue esigenze personali.

I DPCM sul Coronavirus non facevano cenno al luogo; il DPCM 11 marzo 2020 lo fa indirettamente, raccomandando l’utilizzo della modalità agile “per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza”.

La domanda è: il lavoratore agile “per Coronavirus” è libero di svolgere la propria prestazione dove vuole, o esistono dei vincoli? E come deve essere gestito questo aspetto nel provvedimento del datore di lavoro che dispone la modalità agile?

A nostro avviso, per trovare la risposta si deve partire da un dato di fatto indiscutibile, e cioè che il lavoro agile è stato agevolato dal Governo in funzione di un presupposto ben preciso, e cioè la esistenza di un rischio di contagio, e con una finalità ben precisa, e cioè la introduzione di misure volte a favorire il contenimento del contagio.

Non si tratta soltanto di evidenza intuitiva, ma anche di precisi dati normativi in questo senso.

Mentre il primo D.L. n. 6/2020 – che dà la cornice legislativa primaria ai successivi DPCM – non menzionava il lavoro agile, il D.L. n.9/2020 sancisce lo scopo di agevolare il lavoro agile “quale ulteriore misura per contrastare e contenere l’imprevedibile emergenza epidemiologica”

Anche il DPCM 11 marzo 2020 include il lavoro agile tra le misure adottate “allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19”.

Inoltre, se si guarda al crescendo dei successivi DPCM, l’accesso al lavoro agile “semplificato” è stato previsto dapprima (DPCM 23 febbraio) “nell’ambito di aree considerate a rischio”; poi (DPCM 25 febbraio 2020) per i “datori di lavoro aventi sede legale o operativa”  in Veneto e altre Regioni interessate nonché “per i lavoratori ivi residenti o domiciliati” che lavoravano “fuori da tali territori”; infine (DPCM 1 marzo 2020) è stato esteso “sull’intero territorio nazionale”.

Non solo la dimensione territoriale, ma anche la durata della applicabilità delle misure di semplificazione ha seguito l’estendersi del rischio di contagio e della necessità  di contenimento; dapprima previsto in via provvisoria fino al 15 marzo 2020, l’istituto è stato esteso infine all’intera durata dello stato di emergenza.

Non vi sono dubbi dunque sul fatto che per il Governo lo Smart Working è una misura di prevenzione,  nella misura in cui consente di limitare la presenza di persone nei luoghi di lavoro; non vi sono dubbi che è stato semplificato per questo motivo.

Ma si tratta del lavoro agile di cui alla legge n. 81/2017, o di una forma tutta peculiare di lavoro agile che alla fine configura una fattispecie di “lavoro a casa”?

Con i primi DPCM di febbraio, il silenzio sul luogo di prestazione poteva forse essere inteso come volontà “soltanto” di evitare la presenza nei luoghi di lavoro di tutto il personale che poteva stare altrove (in altre parole: meglio le persone in giro, piuttosto che le persone assieme in azienda); ma oggi una tale lettura non è più possibile: il motto “IO RESTO A CASA” vale per il  cittadino, ma vale anche per lo Smart Worker. Del resto, uno Smart Worker non potrebbe giustificare uno spostamento personale con le “comprovate esigenze lavorative”, perché non vi è un luogo nel quale egli “deve” recarsi.

Appare dunque ragionevole ritenere che lo “Smart Working per Coronavirus” è in realtà un “Home Working”. 

Non di “lavoro agile” si tratta; bensì di “lavoro a casa”.

Non pare davvero possibile arrivare a conclusioni diverse leggendo l’art. 1 n. 7) lettera a) del DPCM 11 marzo 2020, che parla di lavoro “al proprio domicilio o in  modalità a distanza”; non pare infatti ragionevole pensare, che il Governo abbia da un lato adottato misure che limitano fortemente la libertà di  movimento delle persone al fine di farle rimanere a casa, e poi abbia aperto le porte ad un lavoro agile svolto ovunque. Appare più logico ritenere (salvo voler pensare ad una semplice imperfezione di scrittura) che si sia voluto consentire di individuare come luogo di svolgimento del lavoro agile non “il proprio domicilio”, bensì un altro luogo individuato dal lavoratore; ma sempre di luogo unico e fisso deve a nostro avviso trattarsi, e comunque sicuramente non può essere il “non luogo” che contraddistingue tipicamente il lavoro agile.

Come impatta questa conclusione sul contenuto dei provvedimenti, con i quali il datore di lavoro dà attuazione alla misura?

Il datore di lavoro potrebbe lapidariamente sancire nel provvedimento, con il quale assegna al lavoratore la modalità “agile”, che la prestazione deve essere svolta esclusivamente presso l’abitazione. 

Questo probabilmente supporterebbe anche l’esercizio, da parte del datore di lavoro, dei propri poteri, quello direttivo, ma anche ed ancor più quelli di controllo e disciplinare:  giacchè questi aspetti, tipicamente oggetto nella Legge n. 81/17 dell’accordo tra le parti, sono stati tutti tendenzialmente rimossi in questa fase emergenziale di riorganizzazione del lavoro, in cui l’accordo non c’è; ma certo non vanno dimenticati in una prospettiva generale.

In alternativa, il datore di lavoro potrebbe anche disporre il lavoro agile senza specificare nulla circa il luogo: interviene in questo caso, a definire il perimetro degli spostamenti del lavoratore, il contenuto integrativo dei DPCM con le misure di contenimento.

Quale che sia la soluzione prescelta, quello che appare superato sono – perché tecnicamente inapplicabili – i modelli-tipo di regolamentazione del lavoro agile in uso in questi anni, i quali alla voce “luogo di svolgimento della prestazione” fanno riferimento indistinto a “qualsiasi luogo” “altro luogo diverso dalla abitazione”, o simili espressioni.

Questa conclusione consente tra l’altro di chiarire alcuni equivoci sorti in passato, e che in qualche misura si sentono riproposti in queste ore, circa il contenuto degli obblighi delle parti del rapporto ai fini della sicurezza del lavoratore.

Per il lavoratore agile “normale” la prestazione fuori dell’azienda si svolge in un non-luogo: il luogo della prestazione, quando il lavoratore agile non è in azienda, viene individuato soltanto in negativo, per quello che non è (non è all’interno, non è in un posto fisso). 

E’ nell’essenza stessa del lavoro agile, come prefigurato dalla Legge n. 81/17, che il luogo in cui svolgere la propria attività (il luogo di lavoro) venga scelto dal lavoratore, e che possa essere scelto di volta in volta, anche giorno per giorno, anche in luoghi diversi nello stesso giorno .

Ciò non soltanto esclude che vi sia la “disponibilità giuridica” del luogo di lavoro in capo al datore di lavoro, ma fa venir meno perfino la nozione stessa di “luogo” di lavoro: luogo di lavoro è ovunque il lavoratore voglia che lo sia. 

Ma se è così, è da escludere che facciano capo al datore di lavoro, e che vadano fatti oggetto di valutazione dei rischi e di informativa, i rischi e le misure di prevenzione legati a specifici luoghi, abitazione del lavoratore compresa, alle condizioni degli impianti, alla adeguatezza dei locali, alle condizioni igienico-sanitarie, e così via.

Attribuire al datore di lavoro l’obbligo di accertare preventivamente la rispondenza del luogo in cui il lavoratore agile si muove, costituisce con tutta evidenza una contraddizione in termini.

Ebbene, se questo obbligo il datore di lavoro non ce l’ha per un lavoratore agile “normale”, per il fatto che non sa dove il lavoratore lavorerà, ebbene non ce l’ha neppure per lo “Smart Worker da Coronavirus” che lavora a casa: e l’obbligo non ce l’ha non solo perché si tratta di luogo del quale egli non può disporre, ma anche per l’ulteriore motivo, che non si tratta di un luogo di lavoro che il datore di lavoro può in qualche misura “scegliere”, “valutare”, dando o meno il suo consenso a che la prestazione si svolga proprio lì: il luogo di lavoro “abitazione” è, per lo “Smart Worker per Coronavirus”, un luogo di lavoro necessario.

Di nuovo risalta in tutta la sua rilevanza la natura emergenziale dello strumento: con quanto ne deriva, come tra poco si dirà, anche in relazione all’obbligo di informativa.

  1. L’assenza degli accordi individuali.

L’accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore agile, secondo l’art. 2 della Legge n. 81/17, ha una valenza contrattuale (si tratta di una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato”, e come tale richiede la volontà di entrambi i contraenti), una valenza formale (la forma scritta serve ai fini “della regolarità amministrativa e della prova”), infine una valenza sostanziale rispetto alla parte caratteristica del rapporto, visto che disciplina “l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali”.

In questo senso, l’accordo regola non solo gli strumenti utilizzati dal lavoratore e le misure tecniche ed organizzative necessarie per la disconnessione, ma anche le forme del potere direttivo del datore di lavoro.

La deroga al principio dell’accordo individuale costituisce indubbiamente la misura più dirompente e più importante dello “Smart Working per Coronavirus”. Essa si spiega sia con l’esigenza di rapidità nella adozione della misura, sia con la circostanza che avendo finalità di prevenzione essa è una misura a favore del lavoratore; né la compressione dei diritti appare irragionevole considerato che si tratta di una semplificazione limitata nel tempo e con un termine ultimo ben preciso.

Sancita nel DPCM 8 marzo 2020 come in quelli precedenti, la locuzione “anche in assenza di accordi individuali” non si trova riproposta nel DPCM 11 marzo 2020 per le attività produttive e professionali; per le pubbliche amministrazioni invece il tema è riproposto, ma la formulazione è leggermente diversa: “anche in deroga agli accordi individuali”.

Questo non modifica, a nostro avviso, la regola di fondo che esclude la necessità di accordo individuale.

Una prima ragione è ancora una volta sistematica: sarebbe paradossale, se non addirittura schizofrenico, pensare che proprio il DPCM che più di tutti spinge sul lavoro agile come misura di prevenzione tornasse ad introdurre quell’elemento – l’accordo individuale – che fin da principio tutti i DPCM avevano escluso per esigenze di rapidità e di tutela.

Una seconda ragione è letterale, e deriva dal fatto che il DPCM 11 marzo 2020 non contiene, almeno per le attività produttive e professionali, la disciplina del lavoro agile per Coronavirus, occupandosi piuttosto di definire in quali circostanze al datore di lavoro è raccomandato di farne uso: le regole contrattuali (assenza di accordi individuali, obbligo di informativa) rimangono dunque quelle del DPCM 8 marzo 2020, che sicuramente sono compatibili ed anzi sono un riferimento obbligato.

Diverso è il discorso per le pubbliche amministrazioni, giacchè l’art. 1 n. 6) interviene sulla disciplina: ma a differenza dell’obbligo di informativa, per il quale c’è una novità sostanziale e cioè la deroga all’obbligo, per l’accordo individuale viene ribadito che le p.a. operano “anche in deroga”: il che può essere letto o nel senso che si deroga al principio, e quindi l’assenza di accordo è confermata anche se scritta in altro modo, oppure può essere letto nel senso di consentire la deroga agli accordi individuali che fossero già stati sottoscritti prima dell’emergenza.

Alla fine, non appare possibile avere dubbi sul fatto che l’accordo individuale non è richiesto.

Cosa significa questo per il datore di lavoro? Come va gestita questa circostanza, allorchè si decide di adottare la modalità agile per i lavoratori?

a)

In primo luogo, questo significa che la decisione di assegnare il lavoratore a  modalità di lavoro agile (in realtà: a modalità di lavoro da casa) può essere assunta in via unilaterale dal datore di lavoro e non necessita del consenso del lavoratore.

Naturalmente sono fatti salvi i principi che stanno alla base dell’istituto; non sono dunque in discussione ad esempio  né i trattamenti economico e normativo, né il diritto alla disconnessione.

Anche in questo caso, si tratta di una deroga che impatta fortemente sui tradizionali modelli-tipo.

Se vengono utilizzati i testi predisposti secondo la Legge n. 81/17, si troveranno espressioni come “accordo”, “concordato tra le parti”,  e così via; il che è tecnicamente sbagliato, ma rischia anche di avere conseguenze pratiche inattese.

Ed infatti, se un provvedimento con queste espressioni venisse ora sottoposto alla firma del lavoratore e da questi sottoscritto, ben si potrebbe affermare che siamo di fronte ad un “accordo individuale tra le parti”: circostanza che il DPCM non vieta, nel senso che consente il lavoro agile “anche in assenza degli accordi”, ma certo non li esclude a priori.

In questo caso, potrebbe essere più complicato per il datore di lavoro pretendere di esercitare il potere unilaterale di gestione del lavoro agile, che il DPCM gli attribuisce; sicchè ad esempio potrebbero porsi dei problemi al momento in cui il datore di lavoro decidesse di esercitare il potere – che il DPCM gli dà – di modificare le condizioni del lavoro agile, se la modalità non derivasse da una assegnazione con provvedimento unilaterale, ma da un “accordo”.

b)

Un secondo aspetto di questo potere del datore di lavoro è il seguente: il datore di lavoro ha dei vincoli nell’esercizio del suo potere di decidere la modalità agile, o invece è libero di esercitarla nel pieno della sua autonomia di imprenditore?

Per le pubbliche amministrazioni il DPCM 11 marzo 2020 introduce una indicazione ben precisa: lo svolgimento delle prestazioni in modalità agile deve essere assicurato “in via ordinaria”, e vanno individuate “le attività indifferibili da rendere in presenza”.

Se ne deduce, che il lavoro “in presenza” costituisce eccezione, e tale eccezione richiede una preventiva qualificazione di “indifferibilità” alle attività che vengono escluse dallo Smart Working.

La limitazione al potere decisionale del datore di lavoro è evidente.

Per le attività produttive e professionali, invece, il DPCM 11 marzo 2020 contiene una “raccomandazione” e non detta prescrizioni vincolanti; in pari tempo, il quadro delineato nel DPCM è chiaro nel senso di considerare lo Smart Working non solo come misura prevenzionale, ma anche come misura preferibile ad ogni altra.

Il “massimo utilizzo” è raccomandato per tutte le attività “che possono essere svolte” in modalità agile.

Non viene utilizzato qui il criterio della “indifferibilità”: il discrimine dipende dal fatto, se la modalità agile è “possibile” o meno.

Questo introduce il tema della fattibilità tecnica della misura: ambito nel quale sicuramente è da escludere l’esistenza di un obbligo del datore di lavoro di adottare seduta stante strumenti tecnologici o soluzioni lavorative smart, e che va piuttosto declinato come una raccomandazione a valutare se ci siano le condizioni per tecnologiche ed organizzative per lavorare da casa , ed attuare la modalità agile in massima misura dove queste condizioni esistono.

Nell’ambito di queste indicazioni, rimane in capo al datore di lavoro la decisione se ricorrere al lavoro agile. Non è dunque possibile per il lavoratore pretendere dal datore di lavoro l’applicazione della misura; parimenti ed a contrario, il lavoratore non potrà opporre un diniego al datore di lavoro che decide di applicarla.

Rimane in capo al datore di lavoro anche la decisione su chi assegnare al lavoro a casa e chi invece no.

Ancora, rimane in capo al datore di lavoro la decisione su quanta parte dell’orario di lavoro del lavoratore assegnargli a casa, e quanta tenere in azienda: con la ulteriore annotazione che nella Legge n. 81/17 il lavoro agile deve prevedere comunque almeno una parte di lavoro “all’interno dei locali aziendali”, mentre la natura eccezionale dell’istituto come previsto dai DPCM sembra tale da consentire invece (anche se non obbliga) una prestazione integralmente eseguita da casa.

Naturalmente, è una decisione che il datore di lavoro dovrà prendersi combinando le raccomandazioni sul lavoro agile con le altre che il DPCM 11 marzo 2020 introduce, fermo restando che le attività “in presenza” dovranno essere gestite secondo criteri di tutela dei lavoratori, nella prospettiva di specifici “protocolli anti-contagio” espressamente richiamati dal DPCM medesimo.

  1. La durata dello “Smart Working per Coronavirus”.

La Legge n. 81/17 regola la durata del lavoro agile demandandone la disciplina all’accordo individuale, che può scegliere tra applicazione a termine o a tempo indeterminato con diritto di recesso per entrambe le parti.

In mancanza di accordi individuali, come si deve regolare il datore di lavoro quanto alla durata della prestazione in modalità agile?

Secondo il DPCM 8 marzo 2020, che come detto rimane a nostro avviso la norma di riferimento per la disciplina contrattuale di questa specifica forma di lavoro agile, il lavoro agile può essere applicato, con le particolari condizioni semplificate, “per la durata dello stato di emergenza”: quindi, si tratta di strumento applicabile fino alla fine del mese di luglio 2020.

Ne consegue che qualsiasi rapporto che venga assegnato oggi in modalità agile “semplificata” comunque non potrà protrarsi oltre quella data: invero, le circostanze emergenziali appaiono come il presupposto normativo che integra condizione di liceità del rapporto contrattuale.

Alla fine dello stato di emergenza, dunque, il rapporto di lavoro agile – ove fosse all’epoca ancora svolto in modalità Smart – tornerà ad essere sottoposto alle regole generali del singolo contratto individuale di ciascun lavoratore.

Questa conclusione deve ritenersi applicabile sia se il datore di lavoro specifica, nell’atto di assegnazione, che l’assegnazione avrà termine con lo scadere dei sei mesi; sia se il datore di lavoro non specifica nulla, posto che si tratta appunto di condizione normativa.

Semmai, il datore di lavoro potrà valutare di non indicare una data fissa (31 luglio 2020) né un periodo fisso, limitandosi piuttosto a condizionare la durata dello Smart Working alla “durata dello stato di emergenza”: questo da un lato ne comporterebbe la cessazione nella ipotesi – da tutti auspicata – di una dichiarazione anticipata di revoca dello stato di emergenza, mentre dall’altro lato ne comporterebbe un automatico prolungamento in caso di allungamento dello stato di emergenza.

All’interno del periodo generale di ammissibilità dello strumento, si deve ritenere che al datore di lavoro sia attribuito anche il potere di prolungare un rapporto Smart previsto inizialmente per un periodo più breve, o di anticipare la cessazione di un rapporto Smart prima della data indicata nell’atto di assegnazione.

In questo senso depone, infatti, la scelta del Governo di attribuire al datore di lavoro il potere di decidere l’applicazione dello strumento in assenza di accordo.

Un limite temporale specifico esiste invece per le peculiari disposizioni del DPCM 11 marzo 2020, che (art. 3) producono effetto dal 12 marzo 2020 e fino al 25 marzo 2020.

Poiché si tratta di disposizioni che tengono fermo lo strumento in generale, salvo dettarne alcuni limiti transitori, se ne deduce che dopo il 25 marzo 2020 verrà meno l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di disporre la modalità agile di tutte le attività differibili, e verrà meno anche la deroga all’obbligo di informativa; per le attività produttive e professionali, dopo il 25 marzo 2020 verranno meno le raccomandazioni al “maggiore utilizzo possibile” e quindi l’autonomia del datore di lavoro tornerà ad ampliarsi.

  1. L’obbligo di informativa sui rischi: il documento INAIL 

Tra i principi della Legge n. 81/17, vi è quello secondo cui (art. 18 co. 2) “il datore di lavoro è responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa” e (art. 22 co. 1) “il datore di lavoro garantisce la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità agile”.

Come noto, la stessa Legge introduce uno strumento finalizzato a tali obiettivi, prevedendo (art. 22 co. 1) che il datore di lavoro “consegna al lavoratore e al RLS, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro”

Secondo i principi generali del Decreto 81/08, si deve ritenere che (in condizioni normali) questo adempimento presupponga le attività che gli sono prodromiche: valutazione nel DVR della scelta di ricorrere al lavoro agile (l’art. 29 del Decreto 81 richiede la rielaborazione del DVR “in occasione di modifiche della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori”; l’art. 28 prescrive di valutare i rischi “connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro”); informazione e formazione; adeguamento dei protocolli di sorveglianza sanitaria; e così via.

Ebbene, il DPCM 8 marzo 2020 (come gli altri prima) mostrava di ritenere impossibili tali incombenti in situazione di emergenza, e faceva di conseguenza una scelta ben precisa: veniva menzionato solo l’obbligo di informativa, che restava confermato, ma ne veniva semplificato l’adempimento, non solo ammettendone l’esecuzione “in via telematica”, ma anche e soprattutto rimandando alla documentazione disponibile sul sito INAIL.

Per le attività produttive e professionali, questa disciplina è confermata, perché il DPCM 11 marzo 2020 nulla dice al riguardo.

La grande differenza è per le pubbliche amministrazioni, per le quali la modalità agile va adottata, almeno fino al 25 marzo 2020, “anche in deroga agli obblighi informativi di cui agli articoli da 18 a 23” della Legge n.81/17.

Ora, il ricorso al documento INAIL è una deroga alla regola generale, se per rischi generali ai sensi dell’art. 22 intendiamo i rischi tipici generalmente connessi alla esecuzione della prestazione lavorativa in modalità agile (rischi propri e caratteristici, in generale, di tutti i lavoratori agili) mentre per  rischi specifici intendiamo i rischi cui ogni specifico lavoratore agile è esposto in relazione all’attività svolta ed alle specifiche modalità concordate di volta in volta.

Nel documento INAIL, infatti, la parte “specifica” manca per definizione, essendo un documento standardizzato.

Eppure, per il DPCM è una misura sufficiente. E’ un difetto di tutela?

A nostro avviso no.

Si deve dedurlo dal solo fatto, che per le pubbliche amministrazioni perfino l’obbligo di informativa standardizzata INAIL viene escluso.

Inoltre, quello che risulta evidente è che, nel contesto emergenziale, il Governo ha ritenuto assorbiti nel documento INAIL tutti gli incombenti: INAIL ha naturalmente dovuto compiere una valutazione dei rischi per redigere una informativa su di essi, e poiché si tratta di rischi tipici della prestazione “fuori sede”, sono suscettibili di una standardizzazione che non è, per una volta, sinonimo di “copia e incolla”, bensì riconoscimento di una omogeneità di situazioni tutte tra loro assimilabili.

Ne consegue, che in questo contesto emergenziale il datore di lavoro che ricorre all’informativa INAIL ha adempiuto sia all’obbligo di informativa di cui all’art. 22 del Decreto 81/17, sia in generale agli obblighi sanciti dal Decreto 81/08; e questo per l’intero periodo dell’emergenza. 

Del resto, sarebbe paradossale immaginare una contestazione al datore di lavoro di non avere valutato il rischio e adeguato il DVR, quando i rischi su cui informare i lavoratori sono indicati dallo stesso Governo mediante rimando ad INAIL e quando è di quei rischi che il datore di lavoro deve dare l’informativa.

La circostanza emergenziale è semmai l’occasione per interrogarsi sulla reale consistenza sostanziale dell’obbligo di informativa sui “rischi specifici” anche nel contesto del lavoro agile “normale”, quello che prescinde dall’emergenza Coronavirus: è l’occasione per domandarsi se la categoria dei “rischi specifici” riguardi non tanto lo svolgimento di lavoro agile in sé, quanto e tutt’al più gli effetti che esso comporta nelle dinamiche intra-aziendali e quindi, in ultima analisi, essenzialmente  i profili di natura psico-sociale.

Tornando al tema di fondo, il punto è che possiamo (dobbiamo?) dare per scontato che ogni datore di lavoro privato trasmetterà al lavoratore l’informativa INAIL tal quale; e l’ulteriore punto è che nessuno potrà un domani lamentare che ciò non sia sufficiente per ritenere adempiuto l’obbligo di cui all’art. 22 della Legge n. 81/17.

Il dato letterale potrebbe essere forzato a questo proposito, se questo qualcuno sostenesse che l’art. 2 lettera r) del DPCM 8 marzo 2020 consente sì di “ricorrere alla documentazione resa disponibile”, ma non afferma che essa sia sufficiente; in altre parole, si tratterebbe di una base di partenza, non di una informativa finita.

Per quanto possiamo essere abituati ad un sistema che (purtroppo) legge le misure di cautela a posteriori per trarne motivo di responsabilità, la tesi non appare davvero sostenibile.

Quella messa a disposizione da INAIL è, a tutti gli effetti, una “informativa”; ed il tenore letterale del DPCM è chiaro nel senso che tale documentazione costituisce lo strumento per adempiere all’obbligo.

Vero è semmai, che l’informativa INAIL contiene fin troppe cose, per uno “Smart Working da Coronavirus”.

Se in realtà si tratta di Home Working, sono sostanzialmente ultronei i paragrafi sui rischi negli ambienti outdoor, ad esempio; così come la tabella finale, riepilogativa di diversi scenari lavorativi possibili, tendenzialmente include un solo scenario davvero compatibile con il DPCM, e cioè quello del “lavoro agile in locali privati al chiuso”. 

Ma non è certo il caso di stralciarli dall’informativa per un qualche amor di precisione; semplicemente sono parti dell’informativa che non troveranno applicazione  in questa specifica fase storica.

Un’altra considerazione che la natura standardizzata dell’informativa INAIL porta con sé riguarda il fatto che, mentre la sottoscrizione da parte del lavoratore (che il modello INAIL prevede) è adempimento necessario per attestare l’assolvimento dell’obbligo, appare meno giustificata la firma del RLS, richiesta dal  modello ai fini di una  “condivisione del contenuto” che si dovrebbe ritenere superflua, essendo un documento di provenienza istituzionale riconosciuto nella sua efficacia dallo stesso DPCM. Naturalmente, bene farà il datore di lavoro ad acquisire tale sottoscrizione quantomeno per adesione formale al modello; ma non sembra che questa firma possa avere la valenza e l’efficacia di altri casi di coinvolgimento del RLS, né che la sua mancanza possa avere rilevanza sostanziale.

Anche in questo caso, la circostanza della deroga all’obbligo di informativa per le pubbliche amministrazioni non fa che confermare questa conclusione.

Da ultimo, è interessante osservare che la informativa INAIL richiama nelle “Avvertenze generali” sia l’art, 22 della Legge n. 81/17, sia l’art. 20 del Decreto n. 81/08.

L’art. 22  subito dopo la regola dell’informativa scritta sancisce l’obbligo del lavoratore di “cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali”

Se tale obbligo si riducesse all’obbligo del lavoratore di rispettare le misure di sicurezza, esso non sarebbe che un inutile doppione di quanto già previsto dall’art. 20 del Decreto n. 81/08. Il significato dell’obbligo di cooperazione è ben più profondo, e si ricollega intimamente alla circostanza dell’esecuzione della prestazione “all’esterno”, cioè in un luogo sottratto per definizione da qualsiasi ambito di intervento del datore di lavoro. 

Il legislatore sancisce l’esistenza di un generale obbligo del lavoratore agile, in cui si compenetrano entrambe le norme,  e questo obbligo è basato sulla centralità del ruolo del lavoratore agile, ai fini della propria sicurezza, quando si trova al di fuori dell’azienda; spetta al lavoratore agile applicare le misure di sicurezza, ma non in una prospettiva rigorosamente e ciecamente gerarchica tra obbligato-controllato e controllore, bensì in una logica di cooperazione

Questa logica di cooperazione  è tanto più significativa, quando l’abitazione è il luogo in cui si svolge l’attività, e dove trovano attuazione i principi di elevata autonomia, di capacità decisionale, di responsabilizzazione del lavoratore, che costituiscono il significato più profondo del lavoro agile; anche, e forse a maggior ragione, quando è Smart Working per Coronavirus. 

Coronavirus e spostamenti dei lavoratori: cosa dice il DPCM 8 marzo 2020

L’art.1 del DPCM 8 marzo 2020 introduce nuove regole per il contenimento del contagio in alcune zone, che per comodità continuiamo qui a chiamare zone rosse, tra cui le province di Padova, Treviso, Venezia.

1.

La prima rilevante misura prevede di evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita da tali zone, nonchè all’interno di esse; consente però tali spostamenti quando sono comprovati da esigenze lavorative, oppure da situazioni di necessità o da motivi di salute). E’ consentito inoltre il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza.

La questione che si è posta è se i lavoratori possono recarsi al lavoro muovendosi all’interno della zona vietata; l’ulteriore questione è se i  lavoratori che risiedono dentro le zone rosse possono recarsi nella sede di lavoro che è fuori di esse, o se quelli che risiedono fuori possono recarsi a lavorare all’interno della zona rossa.

Naturalmente, la risposta al quesito è assai rilevante perchè, se lo spostamento è consentito, il lavoratore non solo può, ma deve, recarsi al lavoro: non esisterebbero infatti ragioni giuridiche fondate sul DPCM che potrebbero giustificare la sua assenza al lavoro.

Questo significa garantire la continuità delle attività aziendali.

Ebbene, la risposta è che il DPCM consente gli spostamenti, se ci sono comprovate esigenze lavorative: i lavoratori possono spostarsi sia all’interno della zona (i lavoratori che abitano nella stessa provincia in cui ha sede l’azienda possono andare al lavoro) e possono anche spostarsi in entrata e in uscita dalla zona (i lavoratori con abitazione e lavoro in zone diverse possono spostarsi).

La motivazione che consente gli spostamenti è la medesima per entrambi i casi, ed è appunto quella delle comprovate esigenze lavorative, che però non devono essere esigenze lavorative particolari, qualificate, tantomeno eccezionali; anzi il riferimento alla natura “indifferibile” della prestazione lavorativa, che era contenuto nella bozza circolata nella notte di sabato, non è presente nel DPCM.

Questo significa che per tutti i rapporti di lavoro è consentito lo spostamento, per il solo fatto che si tratta di lavoratori: il principio è stato definitivamente sancito nella Ordinanza n. 646 di Protezione Civile emessa in pari data 8 marzo 2020 per garantire “uniformità applicativa” al DPCM.

Secondo l’Ordinanza 46, “è esclusa ogni applicabilità della misura al transito e trasporto merci ed a tutta la filiera produttiva da e per le zone indicate”.

Vanno però ricordate le due condizioni che consentono gli spostamenti.

La prima condizione è che queste esigenze devono essere comprovate;  quindi, ipotizzando che lungo il tragitto venga sottoposto a controllo, il lavoratore che si sposta deve essere in grado di dimostrare che queste esigenze sussistono, e cioè si sta spostando per andare al lavoro (ma anche più in generale che si sta spostando “per lavoro”). Per dimostrare questo, potrà essere opportuno che il datore di lavoro predisponga e consegni al lavoratore una comunicazione formale, magari nominativamente intestata al lavoratore, con cui  dichiara che l’azienda è operativa e che pertanto sussistono le esigenze lavorative per lo spostamento; ancora il lavoratore potrà viaggiare munito di copia del contratto di lavoro e della busta paga; e così via.

Secondo il Ministero dell’Interno (comunicato stampa 8 marzo 2020), le motivazioni dello spostamento sono “da attestare mediante autodichiarazione, che potrà essere resa anche seduta stante attraverso la compilazione di moduli forniti dalle forze di polizia”.

E’ importante sottolineare che, poichè non vi è il requisito della indifferibilità, il datore di lavoro  non è tenuto a dichiarare tale indifferibilità; ciò significa che il datore di lavoro non deve individuare quali sono, all’interno dell’attività dell’azienda, le esigenze indifferibili, e non deve neanche dimostrare che quel lavoratore deve necessariamente spostarsi; non occorre dunque distinguere tra impiegati, operai, manutentori, tra attività più o meno essenziali o tra attività più o meno urgenti.

Tutti possono spostarsi se ci sono esigenze lavorative e quindi tutti possono/devono recarsi al lavoro.

La seconda condizione riguarda invece direttamente il lavoratore: lo spostamento è consentito solo nella misura in cui è legato alle esigenze lavorative. Questo significa che il lavoratore dovrà effettuare spostamenti che siano giustificati e giustificabili dalle esigenze del lavoro: in particolare dovrà trattarsi del tragitto casa-lavoro-casa; oppure spostamenti per esigenze specifiche.

2.
Stabilito che non vi è interruzione della prestazione lavorativa, poi andranno naturalmente curati in azienda gli adempimenti già noti, cioè le misure igienico-sanitarie e le misure di natura organizzativa.
Tra queste vi è sempre lo smart working; ma il divieto di spostamenti se non per lavoro impone di sottolineare una volta di più che lo smart working al quale pensa il DPCM è inteso come “lavoro a casa”, e non – come sarebbe propriamente secondo la nozione legislativa di “lavoro agile” – come lavoro in qualsiasi posto fuori dell’azienda: se quindi il lavoratore in smart working decidesse di spostarsi per la provincia lavorando agile, i suoi problemi non sarebbero con il datore di lavoro, ma più probabilmente con le Autorità di controllo: gli si potrebbe contestare che si sta spostando in zone interdette senza averne alcuna esigenza lavorativa, e quindi fuori dall’ambito per il quale l’art. 1 del DPCM consente gli spostamenti.


3.
Infine, il DPCM “raccomanda” ai datori di lavoro di “promuovere la fruizione” di congedi ordinari e ferie da parte dei lavoratori.

In attesa di eventuali provvedimenti interpretativi, va osservato che è solo una raccomandazione, e quindi nulla potrebbe contestarsi ad un datore di lavoro che non lo facesse; ma cosa significa esattamente la norma?

Innanzitutto, la norma riguarda “il periodo di efficacia del presente decreto”: quindi lo scopo è tenere i lavoratori in ferie tra i giorni 8 marzo e 3 aprile 2020.

In secondo luogo, la norma comporta che, se il lavoratore sarà in ferie, non ci saranno più le esigenze lavorative che giustificano il suo spostamento: il che equivale a dire, che chi gode delle ferie in questo periodo lo farà con i limiti di spostamento che hanno tutti coloro i quali si trovano nelle zone a rischio e non rientrano nei casi (lavoro, necessità, salute) che consentono di spostarsi.

Infine, l’art. 1 raccomanda di “promuovere la fruizione delle ferie”; invece l’art. 2 per le zone meno a rischio raccomanda “qualora sia possibile…di favorire la fruizione delle ferie”.
La differenza di linguaggio indica che il datore di lavoro deve compiere una attività di “promozione”, e quindi forse vuole intendere che il datore di lavoro deve assumere l’iniziativa perchè il lavoratore goda delle ferie: quindi, possiamo immaginare una comunicazione con cui il datore di lavoro segnala questa norma ed invita tutti i lavoratori a valutare di goderne subito.


Rischio Coronavirus nei luoghi di lavoro dopo il DPCM 1 marzo 2020

Il nuovo DPCM 1 marzo 2020 ha modificato il quadro di riferimento normativo. Ecco un aggiornamento al nuovo Decreto delle regole sulla gestione del rischio nei luoghi di lavoro.


Rischio Coronavirus”, DVR e valutazione dei rischi:

cosa deve fare il datore di lavoro?

(Nuovo testo rivisto ed aggiornato al DPCM 1 marzo 2020)

Quali obblighi ha il datore di lavoro di fronte al “Rischio Coronavirus”?

Web e social riportano interpretazioni di ogni tipo e prospettano le soluzioni più varie: valutare il rischio biologico, aggiornare “in continuo” il DVR, predeterminare gli scenari di diffusione del contagio secondo livelli crescenti di gravità, e molto altro.

Vengono proposti moduli da compilare e autodichiarazioni da sottoscrivere.

E’ davvero così?

Mentre per l’impatto del virus sul lavoro occorre attendere le decisioni che prenderanno le Autorità e gli Istituti competenti (come gestire i lavoratori assenti ivi compresi quelli non contagiati? quale disciplina economica dare al rapporto? ci sarà cassa integrazione? o altre forme di sostegno al reddito?) sulle questioni legate alla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro è possibile individuare dei punti fermi.

Per farlo, occorre partire come sempre dalle norme.

  1. Le norme

La Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 ha dichiarato per sei mesi lo stato di emergenza sul territorio nazionale relativo al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili, richiamando il D.Lgs. n. 1/2018 e quindi classificandolo come “emergenza di rilievo nazionale connessa con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo”.

Il Decreto Legge n. 6/2020 del 23 febbraio 2020ha previsto misure di contenimento per le aree nelle quali risulta positiva almeno una persona con fonte di trasmissione ignota o un caso non riconducibile a persone delle aree già interessate dal contagio. Il Decreto non impone misure dirette, ma demanda alle autorità competenti di adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata; poi detta un elenco delle misure che “possono essere adottate”.

Oltre ad alcune divenute ben note (sospensione di manifestazioni ed eventi, di attività scolastiche e formative, chiusura di musei e simili, ecc.) sono possibili la “chiusura di tutte le attività commerciali, esclusi gli esercizi commerciali per l’acquisto di beni di prima necessità”; la “chiusura o limitazione dell’attività degli uffici pubblici, degli esercenti attività di pubblica utilità e servizi pubblici essenziali specificamente individuati”; la “limitazione all’accesso o sospensione dei servizi del trasporto di merci e di persone…nonché di trasporto pubblico locale… salvo specifiche deroghe”; la “sospensione delle attività lavorative per le imprese, a esclusione di quelle che erogano servizi essenziali e di pubblica utilità e di quelle che possono essere svolte in modalità domiciliare”; la “sospensione o limitazione delle attività lavorative nelle aree interessate dal virus o degli abitanti di dette aree svolte al di fuori…salvo specifiche deroghe, anche in ordine ai presupposti, ai limiti e alle modalità di svolgimento del lavoro agile”.

Sono tutte misure che “possono” essere adottate, e molte di queste misure non sono state adottate; sicuramente non è mai stata disposta la “sospensione delle attività lavorative per le imprese”.

Il DPCM del 23 febbraio 2020 (oggi non più vigente) è stato il primo provvedimento attuativo delle misure, tra quelle sopra previste come possibili; il DPCM riguardava esclusivamente i comuni delle c.d. zone rosse e quindi in Veneto soltanto il Comune di Vò.
Per le imprese al di fuori delle zone rosse, la sola norma che direttamente impattava sul rapporto di lavoro era l’art. 3, sul lavoro agile-smart working.

Il DPCM del 25 febbraio 2020 (anch’esso oggi non più vigente) adottava ulteriori misure di contenimento, non più solo per le zone rosse ma per tutti i comuni del Veneto e delle altre Regioni ad oggi interessate: c’erano la sospensione di eventi sportivi, viaggi d’istruzione, esami di guida, ecc.; ancora una volte, non vi era nessun provvedimento generale di sospensione delle attività produttive.

La Ordinanza del Ministero Salute e Presidente Regione Veneto n. 1/2020 del 23 febbraio 2020  (integrata dalla Circolare esplicativa n. 87953 del 24 febbraio 2020 del Direttore Generale Area Sanità Regione Veneto), disponeva misure straordinarie per l’intero territorio regionale, efficaci fino all’1 marzo 2020. Anche questi provvedimenti non sono più vigenti.

Vi era l’obbligo di sospensione per una serie di attività collegate prevalentemente al mondo delle “manifestazioni” (discoteche e sale da ballo, rappresentazioni teatrali e cinematografiche, ecc.), ma venivano escluse le attività corsistiche ordinarie (centri linguistici, scuole guida, ecc.) e gli impianti sportivi (centri sportivi, palestre, piscine).

Soprattutto, si leggeva che “sono escluse da tale sospensione anche tutte le attività economiche, agricole, produttive, commerciali e di servizio, ivi compresi i pubblici esercizi, le mense, i mercati settimanali”.

In questo momento, la sola norma attuativa vigente è il DPCM del 1 marzo 2020.

Le sue disposizioni hanno effetto dal 2 marzo 2020; la loro efficacia ad oggi è fissata sino all’ 8 marzo 2020, salve alcune misure che valgono fino al 15 marzo 2020; altre ancora saranno efficaci per tutta la durata dello stato di emergenza (in particolare quelle sullo smart working).

Il DPCM espressamente prevede che cessano di avere efficacia le norme sopracitate e “ogni ulteriore misura anche di carattere contingibile e urgente”: lo scopo, dichiarato, è quello di “disciplinare in modo unitario il quadro degli interventi e delle misure attuative” del D.L. n. 6/2020.

  1. Le misure del DPCM 1 marzo 2020

Quanto alle specifiche misure, l’elenco è molto articolato; il DPCM ha sostanzialmente suddiviso il territorio nazionale in aree geografiche ben precise, ed ha previsto livelli diversi di intervento sulla base di questa divisione.

La prima zona è quella dei Comuni di cui all’allegato 1 al DPCM: sono le c.d. zone rosse, nel Veneto quindi il Comune di Vò. Sono le misure più restrittive: divieto di allontanamento e di accesso, sospensione di manifestazioni di qualsiasi natura e di ogni forma di riunione, ecc.: nella prospettiva delle attività di impresa, vanno qui segnalate la sospensione delle attività degli uffici pubblici salvi i servizi essenziali, la chiusura di tutte le attività commerciali salve quelle di pubblica utilità, la sospensione delle attività lavorative per le imprese ad esclusione di quelle che erogano servizi essenziali e di pubblica utilità o di quelle domiciliari o a distanza.

La seconda zona (allegato 2) comprende le Regioni Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna e le Province di Pesaro Urbino e Savona. Le misure comprendono una diversa modulazione delle sospensioni delle varie attività, con una sorta di mix tra divieti assoluti e limitazioni secondo parametri che sono riepilogabili, sostanzialmente, nei criteri di “evitare assembramenti” e di “rispettare la distanza di almeno un metro tra le persone”; altro criterio è quello di “privilegiare, nello svolgimento di incontri e riunioni, le modalità di collegamento da remoto”.

La terza zona sono le province di Bergamo, Lodi, Piacenza e Cremona (allegato 3), con una regola aggiuntiva sulle chiusure all’interno dei centri commerciali per il sabato e la domenica.

La quarta zona comprende la Lombardia e la provincia di Piacenza, con una ulteriore misura riguardante la sospensione per palestre, piscine, eccetera.

La quinta zona è l’intero territorio nazionale. Vi si applicano le misure “di informazione e prevenzione” elencate nell’art. 3, con lo scopo di dare la massima informazione alle misure generali di prevenzione e alle Misure Igieniche elencate nell’allegato 4 (lavarsi spesso le mani, non toccare occhi naso e bocca, ecc.); nonché le ulteriori misure dell’art. 4 comprensive tra l’altro del lavoro agile e della didattica a distanza. È ribadita quindi la possibilità di applicare la modalità di lavoro agile ad ogni rapporto di lavoro subordinato anche in assenza degli accordi individuali; con la particolarità che questa disposizione non vale soltanto per poche settimane, ma per l’intera durata dello stato di emergenza di cui alla deliberazione del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020 e quindi almeno per sei mesi.

  1. La valutazione del Rischio Coronavirus

Da queste norme possiamo ricavare, nella prospettiva della sicurezza e igiene del lavoro, alcune indicazioni ben precise.

Il primo dato certo è che le attività lavorative in genere non sono state fatte oggetto di misure sospensive, pur essendo questa una delle possibilità previste dal DL n. 6/2020.
Questo significa che le Autorità competenti hanno compiuto esse stesse una valutazione del rischio: il che è assolutamente rispondente alle caratteristiche della situazione, in cui non si discute di un rischio lavorativo legato alle specifiche lavorazioni ed alle peculiari condizioni di ogni singola azienda, ente, organizzazione. Come comprova il riferimento originario al D.Lgs. n. 1/2018 e la dichiarazione di stato di emergenza, si tratta di un evento calamitoso.

Il datore di lavoro non è dunque tenuto a compiere una “propria” valutazione del rischio, per decidere se tenere aperta l’azienda o se invece lasciare tutti a casa a scopo prevenzionale.

Ma il datore di lavoro non è neppure tenuto a definire il quadro di tutti gli scenari possibili secondo livelli crescenti di gravità, e a individuare le misure di prevenzione corrispondenti a ciascun livello di gravità. Soprattutto, il datore di lavoro non è tenuto a formalizzare nessun aggiornamento del proprio DVR aziendale, e tantomeno è obbligato poi ad una gestione “quotidiana” e “continua” del DVR, di volta in volta registrando (addirittura con data certa) in quale livello di scenario ci si trovi giorno per giorno.

Si tratta di soluzioni che si trovano sul web, e che – come a volte accade in questi casi – si sono improvvisamente auto-alimentate fino ad assumere quasi uno status di regola obbligatoria.

Ma non è così, e non può essere così.

Non solo e non tanto per la inapplicabilità anche pratica di una tale soluzione, che poi è anche inutilità in concreto: il tempo di registrare con data certa uno scenario, e già occorrerebbe una registrazione nuova, magari prima ancora di avere adottato le misure.

Non solo e non tanto perché la sicurezza non è solo DVR: si dovrebbe anche dare seguito a tutti gli altri adempimenti del Decreto 81, altrimenti si tratterebbe soltanto di applicare la norma nel suo significato più formalistico.

Ma soprattutto, un aggiornamento siffatto del DVR non sarebbe affatto una valutazione dei rischi lavorativi aziendali: sarebbe, nella migliore delle ipotesi, il recepimento nel DVR di scenari e di regole sanciti già dalle Autorità; nella peggiore, un copia-incolla di testi reperiti on-line privo di qualsiasi specifica valenza individuale.

Si noti che anche la Circolare n. 3190 del 3 febbraio 2020 del Ministero della Salute, avente ad oggetto specificamente “gli operatori dei servizi/esercizi a contatto con il pubblico”, aveva ricordato che “la responsabilità di tutelarli dal rischio biologico è in capo al datore di lavoro, con la collaborazione del medico competente”; però aggiungeva anche che: “le misure devono tenere conto della situazione di rischio che…nel caso in esame è attualmente caratterizzata in Italia dall’assenza di circolazione del virus”.

La situazione di rischio è l’elemento da cui dipendono le misure: e la situazione di rischio non è e non può essere, quando si parla di contagio da Coronavirus, una valutazione del singolo datore di lavoro.

Come si legge nel DPCM 1 marzo 2020 e si leggeva in quelli precedenti, le misure sono state via via deliberate “considerato l’evolversi della situazione epidemiologica”: questa sola rileva, e la valutazione di essa non sta certo al datore di lavoro.

Altrettanto ci sembra da escludere che il datore di lavoro abbia un obbligo di attivare procedure di verifica ed accertamento delle condizioni di salute e/o dei movimenti e/o dei contatti vuoi dei propri dipendenti, vuoi di qualunque soggetto esterno che venga a contatto con la sua organizzazione.

Anche in questo caso, il proliferare nel web di moduli, autocertificazioni, verbali di varia natura non risultano né consentiti dal DPCM e dalla normativa “di emergenza”, né richiesti ai sensi del Decreto 81/08.

Il datore di lavoro non ha, a nostro avviso, obblighi di questa natura perché non ne ha neppure i corrispondenti poteri.

Un dato emerge chiaramente dall’ultimo DPCM 1 marzo 2020, ed è la volontà del Governo di disciplinare gli interventi e le misure in modo unitario: a tal punto, che il solo provvedimento vincolante è il DPCM e non sono più efficaci, né sono previsti, i provvedimenti urgenti particolari.

A maggior ragione, non può (non deve) fare qualcosa di diverso il singolo datore di lavoro.

Ebbene, la disciplina unitaria del Governo riflette una scelta precisa: è la scelta di non assoggettare indistintamente chiunque ad un obbligo di verifica delle proprie condizioni sanitarie come condizione per uscire di casa; e neppure assoggettare ogni lavoratore ad un medesimo obbligo di verifica come condizione per l’esercizio della propria attività lavorativa (sia essa nel proprio luogo di lavoro o presso terzi). Conseguentemente, non viene previsto un divieto assoluto né di circolazione delle persone, né di svolgimento delle attività lavorative (con gli spostamenti, e con i contatti interpersonali, che esse necessariamente implicano).

Il Governo ha fatto una scelta diversa: ha previsto un obbligo della singola persona di contattare l’Autorità Sanitaria se proviene da zone a rischio (art. 3 lettera g); e questo assieme a reiterati inviti ad ogni persona ad una condotta consapevole e di cautela.

Declinato secondo le regole proprie della sicurezza sul lavoro, questo si traduce in un obbligo del lavoratore (che deve fare quanto in suo potere per evitare di pregiudicare la salute non solo propria ma anche degli altri lavoratori) di contattare l’Autorità Sanitaria se del caso; e certamente di astenersi dall’attività lavorativa – più precisamente, astenersi dal lasciare l’abitazione – non appena presenti ad esempio dei sintomi.

Non è prevista l’attribuzione al datore di lavoro, in nessun caso ed in nessuna forma, di poteri accertativi; non vi è, secondo il DPCM, una emergenza tale da giustificare questo tipo di potere.

In questo senso si è pronunciato anche il Garante Privacy con nota del 2 marzo 2020: i datori di lavoro devono “astenersi dal raccogliere, a priori e in modo sistematico e generalizzato, anche attraverso specifiche richieste al singolo lavoratore o indagini non consentite, informazioni sulla presenza di eventuali sintomi influenzali”. La motivazione che sta alla base di questo divieto è il punto centrale: “la finalità di prevenzione della diffusione del Coronavirus deve infatti essere svolta da soggetti che istituzionalmente esercitano queste funzioni in modo qualificato”.

In altre parole: non siamo nell’ambito della prevenzione di un rischio lavorativo, area dominabile dal datore di lavoro, e pertanto fonte di un suo obbligo di valutazione.

Del resto, un datore di lavoro che davvero intendesse addentrarsi nei meccanismi a dir poco complessi della circolazione del virus (oltre che in quelli, non meno complicati, dei vincoli dettati dal DPCM), dovrebbe farlo fino in fondo, sostituendosi di fatto alle Autorità sanitarie nel valutare condizioni e limiti alla circolazione delle persone per poi adottare i relativi provvedimenti impeditivi; non potrebbe di certo accontentarsi di un modulo più o meno preciso sui viaggi o sulle temperature corporee: ma così si addentrerebbe in una ipotesi di tutta evidenza impraticabile, prima ancora che inammissibile.

Il principio naturalmente vale anche a contrario, per così dire, e cioè visto dalla prospettiva dei lavoratori: essi non hanno diritto di pretendere dal datore di lavoro dei comportamenti, delle iniziative, delle azioni diverse ed ulteriori rispetto alle regole dettate dall’Autorità centrale attraverso il DPCM. Né hanno diritto di pretendere, che il luogo di lavoro sia un luogo più sicuro di un qualsiasi altro luogo in relazione al rischio di circolazione del virus.

La valutazione del rischio è stata fatta dal DPCM; le misure sono dettate dal DPCM.

Il Coronavirus non rientra, per usare le parole della Corte di Cassazione, nella “area di rischio” che il datore di lavoro deve gestire; o meglio, vi rientra soltanto nella misura in cui anche il datore di lavoro deve attuare, come tutti, le disposizioni del DPCM.

Forse queste vicende, con le soluzioni improbabili che ne sono derivate, saranno utili per riflettere – ad emergenza finita – su alcuni temi critici di fondo del sistema di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro: il luogo di lavoro inteso come luogo “a rischio zero” non solo quando il rischio zero della lavorazione non sia ottenibile, ma anche quando il medesimo rischio non sia affatto zero al di fuori del luogo di lavoro; una applicazione del sistema di sicurezza sul lavoro in cui il concetto di “area di rischio” viene semplificato in maniera spesso totalizzante per il datore di lavoro e poco incline ad esplorare tutti i ruoli dell’organizzazione; un forte sbilanciamento sul giudizio ex post, tale per cui il datore di lavoro si sente costretto a disporre di un qualche elemento a comprova della sua attenzione per eventi pur non dominabili; una esasperata valorizzazione di elementi formali (moduli, dichiarazioni, verbali), considerati motivo di responsabilità per il solo fatto che non ci sono, salvo poi considerarli irrilevanti quando ci sono perché ciò che conta è l’effettività.

  1. Le regole da seguire: brevi cenni

Proviamo a tracciare a questo punto e per sommi capi un elenco di misure, senza pretesa di essere esaustivo.

a)

L’elenco include l’applicazione delle misure igieniche previste ora anche dal DPCM: quindi assicurare la disponibilità in azienda di quanto necessario per lavarsi le mani, pulire le superfici, ecc.; cose forse non nuove ma da curare con specifica attenzione.

Include poi l’adempimento delle misure di informazione dei lavoratori sulle misure igieniche e più in generale sulle misure di prevenzione, inclusa l’informazione sull’obbligo di contattare l’Autorità sanitaria per chi ha avuto contatti con le zone a rischio, o per chi presenti sintomi sospetti. Potranno predisporsi cartelli e avvisi, da esporre con la massima visibilità in tutti i luoghi di lavoro, anche con la finalità di informare i terzi che entrano nei luoghi medesimi.

Include ancora l’obbligo di privilegiare le attività da remoto, anche per incontri o riunioni; dove privilegiare non significa un divieto di fare diversamente, ma significa organizzare quanto possibile; con l’ulteriore annotazione che lo stesso DPCM non vieta la compresenza di più persone, salvo soltanto sancire il divieto di assembramenti o prescrivere la distanza di un metro che, dettati per specifiche attività, possono costituire criteri utili di riferimento anche per tutte le altre laddove applicabili.

Per gli incontri, queste regole vanno considerate altrettanto quando essi coinvolgono soggetti terzi: ai quali non sarà da richiedere un attestato di buona salute, bensì il rigoroso rispetto di regole di comportamento.

Ancora, nel silenzio del DPCM ma secondo i criteri generali di valutazione del rischio per i lavoratori che viaggiano, andranno valutati sia i luoghi di destinazione sia in generale la mobilità del personale e gli effetti che ne possono derivare, adottando se del caso adeguate cautele aggiuntive.

b)

Dal punto di vista metodologico, come deve muoversi il datore di lavoro?

Prima regola per il datore di lavoro è di verificare quali sono le regole del DPCM applicabili alla sua organizzazione in base al luogo.

Seconda regola è cercare nel DPCM le regole di riferimento in base alla tipologia di attività, alla circostanza di essere aperti al pubblico, alle mansioni dei lavoratori ed al contatto che possono avere con il pubblico, alla necessità o meno di organizzare incontri e riunioni, e così via.

Regola generale è di tenersi costantemente informato sull’evolversi del contenuto dei provvedimenti delle autorità: la situazione è in continua evoluzione, e continuo è l’adeguamento delle misure da parte del Governo, misure che costituiscono per ogni datore di lavoro l’unico obbligato riferimento.

In sostanza, non vi è dubbio che il datore di lavoro, stante il suo obbligo di tutela della salute dei lavoratori, sia chiamato a fare quanto in suo potere per dare diffusione ed attuazione alle regole generali sancite dalle Autorità competenti per tutte le persone (quali sono tanto i datori di lavoro quanto i lavoratori) ed inoltre per conformarle alla propria realtà aziendale; quindi non sarebbe corretto affermare che il datore di lavoro non sia tenuto a fare nulla perché il coronavirus non è un “suo” problema; però non può derivarne la costruzione di adempimenti improbabili, che sembrano presupporre un obbligo del datore di lavoro di governare fenomeni ben al di fuori di ciò che egli può fare.

Mai come in questo caso occorre ribadire con forza che un rischio di per sè non eliminabile non può diventare un “rischio zero” all’interno dei luoghi di lavoro, e soltanto lì.

  1. Il lavoro agile “semplificato”

Una ultima considerazione può farsi sul tema del lavoro agile.

L’art. 2 del DPCM 25 febbraio 2020 sostituiva l’art. 3 del DPCM di pochi giorni prima; ne modificava l’ambito territoriale (si applicava non nelle aree “considerate a rischio”, bensì ai “datori di lavoro aventi sede legale o operativa” in Veneto e nelle altre Regioni interessate, nonché “per i lavoratori ivi residenti o domiciliati” che lavorino al di fuori di esse); introduceva un limite temporale, perché il lavoro agile era applicabile secondo le nuove particolari condizioni soltanto “in via provvisoria, fino al 15 marzo 2020”; per il resto ribadiva le forme di favore precedenti, e cioè:

  1. è applicabile ad ogni rapporto di lavoro subordinato;
  2. si applica anche in assenza degli accordi individuali previsti;
  3. la informativa per la sicurezza sul lavoro al lavoratore va resa in via telematica anche utilizzando il modello INAIL.

Il nuovo DPCM dell’1 marzo 2020 riproduce il contenuto nel precedente DPCM del 25 febbraio 2020, ma con due vistosa novità: l’applicazione del lavoro agile è prevista con le nuove modalità “sull’intero territorio nazionale; essa è prevista “per la durata dello stato di emergenza” e quindi per sei mesi dal 31 gennaio 2020 e non più solo fino al 15 marzo 2020.

La scelta è chiara: per il Governo, lo smart working è anch’esso una misura di prevenzione e per questo si vuole agevolarlo e semplificarlo. In questo senso va anche la previsione per cui la informativa obbligatoria al lavoratore sui rischi generali e sui rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione può essere resa in via telematica, e soprattutto può essere fatta “ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’INAIL”: e il modello di informativa è già disponibile nel sito INAIL. In sostanza, si è standardizzato l’adempimento.

Largo dunque allo smart working come mezzo di prevenzione; e che di prevenzione si tratti è dimostrato dal fatto che viene sacrificato un elemento centrale quale l’accordo tra le parti, ma al tempo stesso questo sacrificio è limitato ad un arco temporale ben definito (il che significa, che allo scadere del periodo di emergenza l’accordo tornerà ad essere un requisito sostanziale).

Probabilmente il Governo pensa allo smart worker che lavora da casa, più che a quello “senza vincoli di luogo di lavoro”; però in questo momento l’intento (l’auspicio?) del Governo sembra essere soprattutto quello di limitare la presenza di lavoratori nei luoghi di lavoro abituali, e quindi va bene così.

In ottica di prevenzione, anche questa è una indicazione per i datori di lavoro: se il lavoro agile è praticabile, è bene cercare di attuarlo.

Però non è un obbligo, si badi bene: il che è ovvio, visto che non è uno strumento che si inventa (ed infatti il nuovo articolo non prevede più che venga applicato “in via automatica”, termine che nel primissimo DPCM serviva forse per dare il senso della rimozione di vincoli, ma che si prestava a fraintendimenti).

Non sarà dunque rimproverabile un datore di lavoro per non avere attuato il lavoro agile.

Anche perché la scelta del DPCM è molto chiara pure nel senso opposto, e conferma il dato centrale: lo smart working è solo una opzione raccomandata, ma il luogo di lavoro abituale rimane accessibile, perché è sicuro tanto quanto ogni altro luogo.

Coronavirus, DVR e valutazione dei rischi: cosa deve fare il datore di lavoro?

Quali obblighi ha il datore di lavoro di fronte al “Rischio Coronavirus”?

Web e social riportano interpretazioni di ogni tipo e prospettano le soluzioni più varie: valutare il rischio biologico, aggiornare “in continuo” il DVR, predeterminare gli scenari  di diffusione del contagio secondo livelli crescenti di gravità, e molto altro.

E’ davvero così?

Mentre per l’impatto del virus sul lavoro occorre attendere le decisioni che prenderanno le Autorità e gli Istituti competenti (come gestire i lavoratori assenti ivi compresi quelli non contagiati? quale disciplina economica dare al rapporto? ci sarà cassa integrazione? o altre forme di sostegno al reddito?) sulle questioni legate alla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro è possibile individuare dei punti fermi.

Per farlo, occorre partire come sempre dalle norme.

Il Decreto Legge n. 6/2020 del 23 febbraio 2020 ha previsto misure di contenimento per le aree nelle quali risulta positiva almeno una persona con fonte di trasmissione ignota o un caso non riconducibile a persone delle aree già interessate dal contagio. Il Decreto non impone misure dirette, ma demanda alle autorità competenti di adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata; poi detta un elenco delle misure che “possono essere adottate”. Oltre ad alcune divenute ben note (sospensione di manifestazioni ed eventi, di attività scolastiche e formative, chiusura di musei e simili, ecc.) sono possibili la “chiusura di tutte le attività commerciali, esclusi gli esercizi commerciali per l’acquisto di beni di prima necessità”; la “chiusura o limitazione dell’attività degli uffici pubblici, degli esercenti attività di pubblica utilità e servizi pubblici essenziali specificamente individuati”; la “limitazione all’accesso o sospensione dei servizi del trasporto di merci e di persone…nonché di trasporto pubblico locale… salvo specifiche deroghe”; la “sospensione delle attività lavorative per le imprese, a esclusione di quelle che erogano servizi essenziali e di pubblica utilità e di quelle che possono essere svolte in modalità domiciliare”; la “sospensione o limitazione delle attività lavorative nelle aree interessate dal virus o degli abitanti di dette aree svolte al di fuori…salvo specifiche deroghe, anche in ordine ai presupposti, ai limiti e alle modalità di svolgimento del lavoro agile”.

Sono tutte misure che “possono” essere adottate, e molte di queste misure non sono state adottate; sicuramente non è mai stata disposta la “sospensione delle attività lavorative per le imprese”.

Il DPCM del 23 febbraio 2020 è il primo provvedimento attuativo con cui sono state effettivamente adottate le misure, tra quelle sopra previste come possibili; il DPCM riguardava esclusivamente i comuni delle c.d. zone rosse e quindi in Veneto soltanto il Comune di Vò. Per le imprese al di fuori delle zone rosse, la sola norma che direttamente impattava sul rapporto di lavoro era l’art. 3, sul lavoro agile-smart working.

Il DPCM del 25 febbraio 2020 ha adottato ulteriori misure di contenimento, non più solo per le zone rosse ma per tutti i comuni del Veneto e delle altre Regioni ad oggi interessate: ci sono la sospensione di eventi sportivi, viaggi d’istruzione, esami di guida, ecc.; ancora una volte, non vi è nessun provvedimento generale di sospensione delle attività produttive.

La Ordinanza del Ministero Salute e Presidente Regione Veneto n. 1/2020 del 23 febbraio 2020 (integrata dalla Circolare esplicativa n. 87953 del 24 febbraio 2020 del Direttore Generale Area Sanità Regione Veneto), dispone misure straordinarie per l’intero territorio regionale, efficaci fino all’1 marzo 2020.

Vi è l’obbligo di sospensione per una serie di attività collegate prevalentemente al mondo delle “manifestazioni” (discoteche e sale da ballo, rappresentazioni teatrali e cinematografiche, ecc.), ma sono escluse le attività corsistiche ordinarie (centri linguistici, scuole guida, ecc.) e gli impianti sportivi (centri sportivi, palestre, piscine).

Soprattutto, “sono escluse da tale sospensione anche tutte le attività economiche, agricole, produttive, commerciali e di servizio, ivi compresi i pubblici esercizi, le mense, i mercati settimanali”.

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Da queste norme possiamo ricavare, nella prospettiva della sicurezza e igiene del lavoro, alcune indicazioni ben precise.

Il primo dato certo è che le attività lavorative in genere non sono state fatte oggetto di misure sospensive, pur essendo questa una delle possibilità previste dal DL n. 6/2020. Questo significa che le Autorità competenti hanno compiuto esse stesse una valutazione del rischio: il che è assolutamente rispondente alle caratteristiche della situazione, in cui non si discute di un rischio lavorativo legato alle specifiche lavorazioni ed alle peculiari condizioni di ogni singola azienda, ente, organizzazione.

Il datore di lavoro non è dunque tenuto a compiere una “propria” valutazione del rischio, per decidere se tenere aperta l’azienda o se invece lasciare tutti a casa a scopo prevenzionale.

Ma il datore di lavoro non è neppure tenuto a definire il quadro di tutti gli scenari possibili, secondo livelli crescenti di gravità, e a individuare le misure di prevenzione corrispondenti a ciascun livello di gravità.

Soprattutto, il datore di lavoro non è tenuto a formalizzare nessun aggiornamento del proprio DVR aziendale, e tantomeno è obbligato poi ad una gestione “quotidiana” e “continua” del DVR, di volta in volta registrando (addirittura con data certa) in quale livello di scenario ci si trovi giorno per giorno.

Si tratta di soluzioni che si trovano sul web, e che – come a volte accade in questi casi – si sono improvvisamente auto-alimentate fino ad assumere quasi uno status di regola obbligatoria.

Ma non è così, e non può essere così.

Non solo e non tanto per la inapplicabilità anche pratica di una tale soluzione, che poi è anche inutilità in concreto: il tempo di registrare con data certa uno scenario, e già occorrerebbe una registrazione nuova, magari prima ancora di avere adottato le misure.

Non solo e non tanto perché la sicurezza non è solo DVR: si dovrebbe anche dare seguito a tutti gli altri adempimenti del Decreto 81, altrimenti si tratterebbe soltanto di applicare la norma nel suo significato più formalistico.

Ma soprattutto, un aggiornamento siffatto del DVR non sarebbe affatto una valutazione dei rischi lavorativi aziendali: sarebbe, nella migliore delle ipotesi, il recepimento nel DVR di scenari e di regole sanciti già dalle Autorità; nella peggiore, un copia-incolla di testi reperiti on-line privo di qualsiasi specifica valenza individuale.

Si noti che anche la Circolare n. 3190 del 3 febbraio 2020 del Ministero della Salute, avente ad oggetto specificamente “gli operatori dei servizi/esercizi a contatto con il pubblico”, aveva ricordato che “la responsabilità di tutelarli dal rischio biologico è in capo al datore di lavoro, con la collaborazione del medico competente”; però aggiungeva anche che: “le misure devono tenere conto della situazione di rischio che…nel caso in esame è attualmente caratterizzata in Italia dall’assenza di circolazione del virus”.

La situazione di rischio è l’elemento da cui dipendono le misure: e la situazione di rischio non è e non può essere, quando si parla di contagio da Coronavirus, una valutazione del singolo datore di lavoro.

Come si legge anche nel DPCM 25 febbraio 2020, le nuove misure sono state adottate “preso atto dell’evolversi della situazione epidemiologica”: questa sola rileva, e la valutazione di essa non sta certo al datore di lavoro.

Naturalmente, una menzione particolare va fatta per i datori di lavoro di quelle zone e di quelle attività, per le quali è stata imposta la sospensione: ma ancora una volta è l’Autorità a decidere.

E lo stesso è a dirsi per quei datori di lavoro i cui lavoratori per mansione, per luogo di lavoro, per tipologia di lavorazione possono essere esposti: personale che ha contatti con il pubblico, lavoratori che viaggiano, ecc. Ma, a ben guardare, anche per questi casi si possono trovare, nell’insieme delle regole dettate dall’Autorità, sia la valutazione del rischio, sia le misure: i datori di lavoro dovranno naturalmente conformarle alla propria specifica organizzazione ed alle modalità di funzionamento di essa.

Dopodichè, quello che ogni datore di lavoro deve fare è di tenersi costantemente informato sull’evolversi del contenuto dei provvedimenti delle autorità; ma non appare ragionevole né utile  immaginare che questo obbligo di agire informati si debba tradurre  in una costante e permanente opera di aggiornamento del DVR; così come la consultazione con il medico competente è senz’altro giustificata in fattispecie specifiche, ma certo non si sostituisce alle valutazioni compiute dalle Autorità Sanitarie pubbliche.

E ancora, sarà cura del datore di lavoro provvedere a dare informazione ai lavoratori, ricordando gli obblighi generali di prevenzione della malattia tra cui in primis le misure igieniche; e naturalmente creare le condizioni per la loro attuazione (mettere a disposizione sapone e soluzioni idroalcoliche, ecc.); inoltre andranno seguite con rigore le indicazioni date dalle Autorità, se si abbia evidenza di un caso sospetto; e in questo senso anche il ruolo attivo dei lavoratori diventa fondamentale.

In sostanza, non vi è dubbio che il datore di lavoro, stante il suo obbligo di tutela della salute dei lavoratori, sia chiamato a fare quanto in suo potere per dare diffusione ed attuazione alle regole generali sancite dalle Autorità competenti per tutte le persone (quali sono tanto i datori di lavoro quanto i lavoratori) ed inoltre per conformarle alla propria realtà aziendale; quindi non sarebbe corretto affermare che il datore di lavoro non sia tenuto a fare nulla perché il coronavirus non è un “suo” problema; però non può  derivarne la costruzione di adempimenti improbabili, che sembrano presupporre un obbligo del datore di lavoro di governare fenomeni ben al di fuori di ciò che egli può fare.

Mai come in questo caso occorre ribadire con forza che un rischio di per sè non eliminabile non può diventare un “rischio zero” all’interno dei luoghi di lavoro, e soltanto lì.

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Una ultima considerazione può farsi sul tema del lavoro agile.

L’art. 2 del nuovo DPCM 25 febbraio 2020 sostituisce l’art. 3 del DPCM di pochi giorni prima; ne modifica l’ambito territoriale (si applica non nelle aree “considerate a rischio”, bensì ai “datori di lavoro aventi sede legale o operativa” in Veneto e nelle altre Regioni interessate, nonché “per i lavoratori ivi residenti o domiciliati” che lavorino al di fuori di esse); introduce un limite temporale, perché il lavoro agile è applicabile secondo le nuove particolari condizioni soltanto “in via provvisoria, fino al 15 marzo 2020”; per il resto ribadisce le forme di favore precedenti, e cioè:

  1. è applicabile ad ogni rapporto di lavoro subordinato;
  1. si applica anche in assenza degli accordi individuali previsti;
  2. la informativa per la sicurezza sul lavoro al lavoratore va resa in via telematica anche utilizzando il modello INAIL.

La scelta è chiara: per il Governo, lo smart working è anch’esso una misura di prevenzione e per questo si vuole agevolarlo e semplificarlo. In questo senso va anche la previsione per cui la informativa obbligatoria al lavoratore sui rischi generali e sui rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione può essere resa in via telematica, e soprattutto può essere fatta “ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’INAIL”: e il modello di informativa è già disponibile nel sito INAIL. In sostanza, si è standardizzato l’adempimento.

Largo dunque allo smart working come mezzo di prevenzione.

Probabilmente il Governo pensa allo smart worker che lavora da casa, più che a quello “senza vincoli di luogo di lavoro”; però in questo momento l’intento (l’auspicio?) del Governo sembra essere soprattutto quello di limitare la presenza di lavoratori nei luoghi di lavoro abituali, e quindi va bene così.

In ottica di prevenzione, anche questa è una indicazione per i datori di lavoro del Veneto e delle altre Regioni (o di quelli che occupano lavoratori di queste Regioni): se il lavoro agile è praticabile, è bene cercare di attuarlo.

Però non è un obbligo, si badi bene: il che è ovvio, visto che non è uno strumento che si inventa (ed infatti il nuovo articolo non prevede più che venga applicato “in via automatica”, termine che nel primo DPCM serviva forse per dare il senso della rimozione di vincoli, ma che si prestava a fraintendimenti).

Non sarà dunque rimproverabile un datore di lavoro per non avere attuato il lavoro agile.

Anche perché la scelta del DPCM è molto chiara pure nel senso opposto, e conferma il dato centrale: lo smart working è solo una opzione raccomandata, ma il luogo di lavoro abituale rimane accessibile, perché è sicuro tanto quanto ogni altro luogo.